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Il saggio

"Il contrattempo", l'elogio della lentezza nell'era della velocità

La rincorsa del tempo e i cambiamenti nella scuola. La lucida analisi del linguista Gian Luigi Beccaria

"Il contrattempo", l'elogio della lentezza nell'era della velocità

Gianluigi Beccaria

Milan Kundera, nel suo romanzo "La lentezza", scrisse che «la velocità è la forma di estasi che la rivoluzione tecnologica ha regalato all'uomo». Tale definizione sintetizza assai bene il condizionamento che lo scorrere del tempo ha sul nostro vivere quotidiano. Sulla base della convinzione che non sempre la "velocità" è in grado di regalare all'uomo vantaggiosi stimoli, il linguista piemontese Gian Luigi Beccaria ha da poco pubblicato, per Einaudi, un gran bel saggio, intitolato "In contrattempo – Elogio della lentezza" (112 pagine), che così inizia: «Queste mie pagine sulla "lentezza" proprio in tempi di "velocità", risuoneranno per alcuni in contrattempo.

Non le ho certo dedicate ai vantaggi dell'andare a piedi, dal momento che non intendo affatto fare a meno della Tav, né tessere l'elogio dello scrivere a mano e non al computer, rimpiangendo tempi andati, quando si lavorava lentamente tagliando i dattiloscritti con le forbici, e si incollavano pazientemente le indispensabili striscioline di carta sul già scritto. Non ho rimpianti per il ticchettio della macchina da scrivere, e di scrivanie anacronistiche senza computer. Non sono un nemico delle accelerazioni, usufruisco beatamente come tutti della velocità degli scambi e dell'apprendimento con internet, tantomeno sono nemico delle tecniche e delle scienze, con tutto quel po' po' di progresso e di agi che hanno introdotto nel nostro vivere, ma mi chiedo se la velocità ha davvero migliorato la qualità della nostra esistenza, nel senso del capire, del nostro modo di stare al mondo». Il libro di Beccaria ci consente una serie di utilissime riflessioni sui negativi effetti che un'eccessiva "velocità esistenziale" ha sulla nostra vita quotidiana; perché essa, a ben vedere, è «la malattia del secolo, ed invade tutti i campi».

Quello della lettura, ad esempio. Non solo per motivazioni di carattere pratico (leggere una cosa in maniera superficiale è infatti un "vizio" che, se non giustificato da particolari esigenze, non aiuta certo la comprensione del testo…), ma anche per ragioni meramente "estetiche", in quanto la bellezza di una pagina di grande letteratura riempie, gratifica, insegna. Sempre. Tale diffusa deriva metodologica dell'apprendimento, fondata su una scellerata "rincorsa del tempo" sull'altare di una conoscenza di base senza spessore, ha finito per contaminare anche l'ambito scolastico, con gravissime conseguenze per gli studenti. Ed infatti, quasi ovunque, viene imposto agli studenti uno studio teso ad acquisire un sapere esclusivamente "pratico", che esclude il "superfluo". Questo è tuttavia un grave errore. Le cui conseguenze sono oramai sotto gli occhi di tutti.

L'autore del saggio infatti evidenzia opportunamente a tal proposito che «si stanno privilegiando le "competenze" spendibili. Intere materie sono state ridotte ad "assaggi parziali", a pillole del sapere, a "porzioni laterali". Contano di meno le "conoscenze", è più importante il saper fare, possedere saperi finalizzati a un risultato pratico… Non ci si ferma a pensare che il programmare una scuola tutta in funzione degli sbocchi lavorativi non significa in sostanza che adeguarsi alle esigenze dei grandi gruppi economici, che richiedono dalla scuola soltanto "prestatori d'opera" pronti a rispondere alle esigenze produttive… Ci si è dimenticati che la scuola non deve soltanto servire, ma soprattutto formare. Fondamentale resta la differenza tra formazione e addestramento, tra apprendimento e apprendistato».

Beccaria osserva poi che l'efficacia del nostro sistema scolastico è stata vanificata dalla introduzione di «una sterpaglia ingombrante (dettata da un didattichese triste, noioso, messo in piedi da "scienziati della scuola", che hanno generato un allontanamento anziché un avvicinamento ai testi, alla loro lettura), che ha invaso i manuali. Parole terrificanti si sono accampate nelle "schede mirate", tra riquadri a colori delle antologie: Parte operativa, Verifica sommativa, Percorso formativo, Prerequisiti, Prove d'ingresso, Pianificazione dell'offerta… Questo apparato, anziché un invito alla lettura, è diventato un'esortazione a sottrarsi alla fascinazione e alla consistenza concreta dei testi». Tale lucida valutazione critica della "moderna" didattica (che ha origini anglosassoni…), evidenzia anche che le strategie istituzionali che da decenni vengono portate avanti nella nostra scuola di ogni ordine e grado non hanno fatto altro che vanificare l'impegno e l'abnegazione della maggior parte degli insegnanti. Ed hanno finito per penalizzare gli alunni più "deboli". Beccaria rileva infatti, a tal proposito, che «la scuola troppo facile e permissiva non ha dato i frutti attesi, gli svantaggiati non hanno tratto beneficio da una didattica di basso profilo. Siamo convinti che essa aiuta soltanto le classi medio-alte, le quali trovano comunque un modo di sistemarsi. Il problema della disuguaglianza non lo si abolisce abolendo le conoscenze.

Si è cercato di raggiungere le masse abbassando l'asticella dei saperi, semplificando e riducendo i programmi di studio. Ciò era necessario e doveroso per una nuova scuola di massa, ma non siamo stati in grado di tenere a bada gli sviluppi. L'attitudine pedagogica "rassicuratrice" ha aumentato, anziché diminuire, i dislivelli… Oggi la tendenza generale è che si debbano studiare le discipline "utili". Il che sta andando a svantaggio totale delle discipline che aiutavano e aiutano alla riflessione storica o estetica o filosofica o letteraria, quelle che insegnano a pensare (che è poi ciò che conta), indispensabili anche per chi non farà il letterato ma il manager o l'economista». Il linguista piemontese evidenzia poi che la sana abitudine di una volta di abbandonarsi ad una lettura lenta e ponderata, è stata oramai soppiantata da quella che tende invece a preferire l'apprendimento frettoloso e superficiale che offrono i social network. Tale andazzo – unito alla sempre minore attitudine alla lettura – ha contribuito ad un evidente svilimento del livello medio di scrittura. Che oramai è infatti quasi ovunque sciatto, basico ed elementare, privo di quella ricchezza lessicale che è stata poi la base della millenaria evoluzione umana.

Ebbene, questo progressivo impoverimento grammaticale, sintattico e narrativo, altro non è se non l'effetto di scarse letture (per di più veloci), che conducono alla redazione di testi che non solo non insegnano nulla ma – soprattutto – non colpiscono il lettore, e quindi si rendono sostanzialmente "inutili". Inoltre, l'appiattimento cognitivo, offende, di fatto, la fatica che normalmente c'è sempre dietro la scrittura di una pagina letteraria di grande bellezza; ma anche, a ben vedere, dietro una scoperta scientifica, un'opera d'arte, o una vittoria sportiva. Quasi mai, esse, sono infatti il frutto di una frettolosa applicazione o di un superficiale impegno. Una ragione ci sarà, e probabilmente è piuttosto lontana dal concetto di velocità fine a se stessa.

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