Esattamente quattrocento anni fa, nell'arco di due soli giorni, vennero a mancare due geni. Due uomini che, con le loro opere, cambiarono per sempre il modo di concepire l'arte e la cultura, ma in particolar modo la letteratura, e il modo di rapportarsi ad essa. Il 22 aprile morì a Madrid Miguel de Cervantes Saavedra, già famosissimo in Spagna per aver scritto, tra le altre cose, un romanzo in due parti (pubblicate a dieci anni di distanza l'una dall'altra) intitolato “El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha”, o se preferite, in italiano, “Don Chisciotte della Mancia”. Il giorno dopo, proprio quando compiva 52 anni, si spense nella sua casa di Stratford-upon-Avon, Inghilterra, William Shakespeare, universalmente riconosciuto (già allora) come il più grande drammaturgo di tutti i tempi. Ad oggi, i due scrittori fanno parte di quel ristrettissimo Olimpo nel quale risiedono pochi altri autori: Dante Alighieri di certo, John Milton e Charles Baudelaire probabilmente. Gli altri “ospiti” variano a seconda dei gusti personali e di ciò che ognuno di noi considera “letteratura alta” - ammesso e non concesso che questa esista.

Cervantes e la follia dell'immaginazione

Nel 1616, quando morì, Cervantes aveva da poco pubblicato la seconda parte del “Don Chisciotte” che tanto successo aveva avuto nel 1605: successo che aveva portato al fiorire di testi apocrifi, scritti da imitatori che speravano di guadagnare una fettina di gloria. Le avventure del folle “Cavaliere dalla Trista Figura” avevano conquistato non solo quell'élite che all'epoca era in grado di leggere, ma si erano diffuse anche oralmente, proprio come capitava nel Medioevo per le storie cavalleresche. La vicenda è fin troppo nota: l'hidalgo Alonso Quijano è così morbosamente appassionato di romanzi cavallereschi da convincersi di essere un cavaliere errante e, come tale, si mette in viaggio insieme al suo fido scudiero Sancho Panza, per difendere i deboli e per combattere i torti e le ingiustizie.

Fin qui niente di eclatante, se non fosse per il fatto che i due, il cavaliere e il suo fido accompagnatore, sono dei “perdenti” nati, guidati dalla follia e dall'avventatezza del Chisciotte, primo vero anti-eroe della letteratura mondiale. Le loro avventure sono infatti piuttosto delle disavventure, dalle quali escono spesso con le ossa rotte e qualche dente in meno. Come quando il cavaliere errante scambia dei mulini a vento per giganti e un gregge di pecore per un esercito di mori. Con visionaria ostinazione, a cavallo del suo Ronzinante, don Chisciotte rimedierà sconfitte e umiliazioni continue. Fino al rinsavimento e alla disillusione finali che, inevitabilmente, lo porteranno alla morte.

Cervantes finge di aver trovato il manoscritto, che reca la firma dello storico Cide Hamete Benengeli, e si fa dunque semplice “messaggero” delle gesta di don Chisciotte. Questo artificio gli permette di riflettere sulla letteratura cavalleresca e sui romances medievali, dando di fatto vita ad una sorta di meta-narrativa in cui sono i libri stessi l'argomento del romanzo. Che si tramuta quindi in satira e omaggio allo stesso tempo: critica e celebra, infatti, tutti i generi in esso presenti, compreso quello picaresco, molto in voga nella Spagna del XVI secolo.

La statua di Miguel de Cervantes a Toledo

La mescolanza di diversi generi letterari è proprio uno dei tratti più rivoluzionari dell'opera, che farà da canone a quasi tutte le composizioni in prosa che verranno dopo, tanto da spingere lo studioso Lionel Trilling a sostenere che: “qualsiasi romanzo successivo, non è altro che una variazione sul tema del 'Don Chisciotte'”. La cui peculiarità sta nell’aver installato “la dimensione immaginaria nell’uomo, con tutte le sue implicazioni terribili o magnifiche, distruttrici o poetiche, facendo di questo nuovo ‘io’ il mezzo di indagine e conoscenza dell’uomo stesso”.

Un altro tratto innovativo di quest'opera sta nel labile confine che essa propone tra realtà e fantasia. Una tematica che, nel XVII secolo, poté essere compresa solo in parte. Perché se è vero che già c'era stata una letteratura “fantastica” (basti pensare all' “Orlando Furioso” di Ariosto), nel “Don Chisciotte” tutto è fin troppo reale: non compaiono draghi, né magie o viaggi sulla luna. L'unico, vero elemento fantastico risiede nella mente del protagonista, che grazie alla sua folle immaginazione distorta vede lo stra-ordinario in situazioni fin troppo ordinarie.

Shakespeare, il re del sogno

Del rapporto tra realtà e fantasia, invece, William Shakespeare fece il suo cavallo di battaglia. Perché oltre alle straordinarie ricostruzioni di vicende storiche, il “Bardo” liberò dal pozzo senza fondo della sua fantasia uno straripante esercito di fantasmi, streghe, maghi, elfi e altre creature fantastiche. In “Amleto”, ad esempio, è lo spettro del padre a spingere il protagonista a vendicare la sua morte. Il “Macbeth”, con il prologo affidato alle tre Streghe e la sua atmosfera cupa e orrorifica, anticipa di quasi due secoli la letteratura gotica. Per non parlare poi di “Sogno di una notte di mezza estate”, in cui mito, fiaba  e quotidianità si mescolano senza soluzione di continuità, dando vita all'opera più surreale ed onirica del drammaturgo inglese.

In quasi tutti i lavori di Shakespeare, infatti, oltre a quella fantastica, ha grande valenza simbolica la dimensione del sogno; sogno che premonizione, indicazione da percorrere, avvertimento, esperienza totalizzante al pari di quella “reale”. E' così in “Macbeth”, interamente popolato di apparizioni rivelatrici e ammonitorie, ma anche nell' “Enrico VIII”, quando a Caterina d'Aragona compaiono in sogno gli spiriti che le assicurano la felicità eterna, la notte prima della sua esecuzione. E il livello onirico, che il “Bardo” utilizzava per far interagire i personaggi con il loro lato più oscuro, recondito e -in alcuni casi- infantile, è ben presente anche ne “La Tempesta”, dove Prospero pronuncia la battuta che forse meglio esemplifica l'intera poetica shakesperiana: “Noi siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni; e nello spazio e nel tempo d'un sogno è racchiusa la nostra breve vita”. Non a caso una delle opere più importanti del teatro in lingua spagnola, "La vita è sogno" di Pedro Calderon de la Barca, è chiaramente influenzata dai testi shakespeariani.

Il dipinto "La lite di Oberon e Titania", di Joseph Noel Paton, ispirato a "Sogno di una notte di mezza estate"

L’analisi psicologica, inoltre, in Shakespeare diventa la materia stessa dell’arte, della rappresentazione teatrale. Nessuno prima di lui era stato in grado di conferire ai personaggi una tale profondità e complessità di pensiero: qualsiasi emozione, dalla rabbia alla gelosia, dall’amore al dolore, viene rappresentata attraverso monologhi, dialoghi e azioni. Da questo punto di vista, il drammaturgo inglese non ha eguali nella storia. Perché sa trascinare ancora oggi il lettore/spettatore nei meandri della follia di Amleto, nella sete di vendetta di Timone d’Atene e in quella di potere di Riccardo III; a quattro secoli di distanza, è impossibile non immedesimarsi nell’amore travolgente e purissimo tra Romeo e Giulietta, in quello lussurioso e bugiardo tra Troilo e Cressida, nell’accecante gelosia di di Otello nei confronti di Desdemona o nella spirale di violenza del “Tito Andronico”. Perché, se è vero che i contesti storici delle opere ci riportano nel passato, sono invece attualissimi gli stati d’animo, le riflessioni e la psicologia di ogni singolo personaggio.

E' impossibile elencare tutte le innovazioni stilistiche, poetiche e -perché no?-, culturali che le opere di Cervantes e Shakespeare hanno introdotto. Tutto ciò che è stato messo su carta nei secoli successivi paga un tributo enorme a questi due grandi geni che, come Omero, Dante, Leonardo o Mozart, hanno costretto l'intera umanità ad interrogarsi e a riflettere sulla propria condizione. Hanno saputo intrattenere il “volgo” e il pubblico colto, senza distinzioni di sorta. Ma -quel che è più importante- hanno saputo analizzare a fondo l’animo, la psiche e tutta la gamma di sentimenti che contraddistinguono l’essere umano: la vendetta, la rabbia, il dolore, la gioia, la pietà e la crudeltà. Ma soprattutto la follia, l’amore e la poesia. Perché, come suggerirebbe Teseo: “Pazzo, amante, poeta: tutti e tre sono composti sol di fantasia”.