Arrivò proprio come un uragano: c’erano state avvisaglie, segnali che i più preparati ed esperti forse riuscirono persino a cogliere, ma che la maggior parte della gente ignorò. Il Punk, in ambito musicale, esplose in tutta la sua rabbia selvaggia un giorno verso la fine del 1976, precisamente il 26 novembre: una band di Londra, chiamata Sex Pistols, pubblica il singolo “Anarchy in the UK”, destinato a scalare le classifiche non solo nel Regno Unito e a influenzare non solo le band future, ma anche la cultura e gli abiti dell’Inghilterra thatcheriana. Era il periodo in cui gli scioperi degli operai venivano sedati a forza di manganellate dei “bobbies” (i poliziotti locali), gli anni ’60 erano finiti da un bel pezzo, e con loro gli ideali hippie dell’amore libero, della pace e compagnia cantante: eh già, perché la guerra in Vietnam degli USA si era rivelata una carneficina, mentre nelle terre di Sua Maestà la Regina Elisabetta il 60% della popolazione viveva quasi in povertà, i giovani non trovavano lavoro, e se erano così fortunati da trovarlo, venivano sfruttati in fabbrica o in miniera dodici ore al giorno, in cambio di paghe ridicole. A ben pensarci, la situazione non era diversissima da quella che viviamo nel mondo dal 2008 circa. Ed è inevitabile che in un momento storico del genere cresca il malcontento, la rabbia, la voglia di ribellarsi e di dire “basta” a qualsiasi tipo di ordine costituito.

Non si tratta semplicemente, come molti sono portati a credere, di creste, piercing e giacche di pelle piene di cerniere. I Sex Pistols, con l’album “Nevermind the Bollocks”, dettero voce ad un’intera generazione che evidentemente non poteva ritrovarsi nella musica dei Beatles o dei Pink Floyd: le chitarre raggiunsero livelli di distorsione e volumi che fino a qualche anno prima sembravano irraggiungibili, le linee vocali si trasformarono in rabbiose invettive spesso poco intonate, è vero, ma efficaci e genuine nella loro violenza emotiva. Quando arrivò sulle scene, il punk fu uno schiaffo, anzi, una raffica di schiaffi sul volto della società: schiaffi che avevano come obiettivo quella di scuoterla dal torpore in cui era finita. “Ehi, svegliati!”, sembravano dire quegli accordi violenti come rasoiate. “Qui tutto sta andando a rotoli! Non c’è lavoro, non c’è futuro, nemmeno lo straccio di una prospettiva!”. Non c’era politica, solo voglia di denunciare e scoperchiare l’establishment. Furono i Clash a trasformare il punk da terremoto a vero e proprio tsunami.

Quando Joe Strummer, il leader dei Clash, vide dal vivo i Sex Pistols, fu folgorato e capì alla perfezione che era quella la strada da seguire: niente più rockabilly, ci voleva il punk, diretto e senza fronzoli, violento ed esplicito. L’album d’esordio, che porta il nome della band stessa, uscì nel 1977 e li consegnò alla storia nell’arco di pochi mesi. Ma, a differenza dei Pistols, “creati” a tavolino da un paio di manager abili e opportunisti, i Clash erano una band vera, fatta di musicisti e uomini con le idee chiare. Fu con loro, infatti, che il punk assunse una dimensione politica, ma forse sarebbe più corretto dire “etica”: le loro canzoni parlavano di scontri razziali, di tafferugli con la polizia, di lavoratori sfruttati e sottopagati, di consumismo sfrenato, di guerre. I Clash erano antirazzisti, antifascisti e antimilitaristi e sapevano esprimere in musica i sentimenti comuni a milioni di giovani, non solo in Europa, ma anche negli Stati Uniti: che conquistarono ben presto, grazie alla loro evoluzione musicale, che li portò a distaccarsi dal puro e semplice punk, per sperimentare e miscelare generi nuovi e vecchi come, forse, nessun altro è riuscito a fare.

Insieme ai Sex Pistols, i Clash hanno influenzato centinaia di band: i Buzzcocks, gli Stiff Little Fingers, i NOFX, i Social Distortion, i Bad Religion, ma non solo. Tutta l’ondata della cosiddetta “New Wave” che dominò le scene negli anni ’80 è figlia di Joe Strummer e soci: i Talking Heads, gli Smiths e persino i Joy Division devono tutto o quasi a quel movimento antropologico, culturale e musicale che prese il nome di punk (che letteralmente significa “di scarso valore, scadente”). Come dicevamo in precedenza, le radici di questo genere affondano anche negli Stati Uniti, dove nei primi ’70 si misero in luce i New York Dolls, gli Stooges di Iggy Pop, gli MC5 e i Ramones, ma è innegabile che Londra ed il Regno Unito furono il vero habitat di questa rabbiosa cultura iconoclasta.

Non è difficile cogliere, a quarant’anni esatti di distanza, i punti di contatto con l’epoca attuale: ora, come allora, viviamo anni precari, senza certezze, dove dominano lo spirito di ribellione nei confronti delle classi dirigenti e di chi detiene il potere. E mentre in tutto il mondo si organizzano celebrazioni di questo quarantennale (a Roma dal 18 marzo al 28 aprile, allo spazio Matèria, si tiene la mostra “Youth codes”,un'esposizione curata dal gallerista Niccolò Fano insieme al fotografo Gianpaolo Arena, che raccoglie due serie fotografiche dedicate alla controcultura giovanile fra gli anni Settanta e Ottanta), nell’aria, oggi più che mai, sembra riecheggiare un ritornello: “No future! No future! No future for you!”.