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L'intervista

Amedeo Di Sora, un poeta che non è stanco di cercare

«La vita è una continua ricerca ed è questo esplorare il senso vero del viaggio»

Nell’introdurre l’intervistato stavolta abbiamo qualche difficoltà. Sono così tanti i suoi talenti che definirlo crea oggettivi problemi di scelta. Amedeo Di Sora è regista teatrale, attore, scrittore, poeta, insegnante, cantante, fine dicitore.

E allora rimettiamo a lui la responsabilità della scelta nell’ambito di questo poliedrico accostarsi alla cultura e alla forma espressiva.
«Io mi definisco poeta, perché è da poeta che approccio a tutte le altre discipline. La dimensione poetica che ho scoperto fin dall’adolescenza rispetto alle cose della vita e del mondo è il filo conduttore di ogni ulteriore esperienza. E dimensione poetica significa anche ricerca del linguaggio e magia della parola, che diventa uno strumento capace di portarti dove vuoi o dove immagini di andare».

Sei senza giri di parole un intellettuale. Il sapere ora passa inevitabilmente per il web o lo strumento primario resta ancora il sano e vecchio libro?
«Senza demonizzare il web ed il linguaggio digitale, perché non è bello né opportuno andar contro certi sviluppi in qualche modo naturali, per me il libro è ancora centrale: è l’oggetto fisico, del quale si può percepire il profumo. La possibilità di toccare le pagine, di avere un rapporto fisico e quasi sensuale con il libro non ha analogie telematiche».

Il teatro è una tua grande passione, che hai saputo trasformare in professione. Ci racconti brevemente come?
«A breve celebrerò il cinquantenario della mia attività teatrale. Iniziai infatti nel 1975, mosso da un misto di curiosità e passione ed avvertii subito, sin dal primo contatto con il pubblico, una mescolanza di sofferenza e piacere. Gassman diceva che nel teatro ci si diverte soffrendo. Dall’emozione di quella prima sera, fortissima, ho preso lo slancio per continuare, formandomi a Roma e in Toscana. A insegnarmi la dizione e le basi di questo mestiere sono stati studiosi importanti come Carlo Merlo, docente di educazione della voce presso l'Accademia Nazionale di Arte Drammatica Silvio D’Amico ed Elsa Fonda, docente di dizione al Centro Sperimentale di cinematografia di Roma. Nel 1980 ho fondato il Teatro dell’Appeso con cui ho realizzato tanti spettacoli e diretto manifestazioni nazionali ed internazionali, attraverso una lunga e costante opera di formazione attoriale e lavorando anche in ambiti particolari, come ad esempio il carcere o i centri di igiene mentale».

La voce è per te uno strumento di lavoro. Quanto può essere allenata e quanto dipende da predisposizione naturale?
«Nel caso del timbro parliamo di un dato naturale e come tale poco modificabile. C’è però un lavoro di educazione della voce e dell’espressione vocale che può acquisire estrema importanza. Ti rispondo perciò 50 e 50».

Il sapere spalanca tante porte ma la conoscenza alimenta anche i dubbi. Come ti rapporti con il dubbio? E’ una convivenza necessaria ma in qualche modo dolorosa?
«Io amo il dubbio, è l’unico modo per sventare il pericolo dell’intolleranza e del fanatismo. I dubbi sono fondamentali per fornire riflessioni critiche su ciò che leggiamo e sulle nostre idee, che non devono mai essere dogmatiche».

Veniamo alla tua copiosa produzione letteraria: “Dieci registi in cerca d’autore”, “Tracce di mare”, “C’eravamo tanto amati”, “Erotikà”, “Anton Giulio Bracaglia tra innovazione e tradizione”, “Amedeo, mio nonno”, “Bagliori vespertini”. Qual è il lavoro cui sei emotivamente più legato, se una preferenza puoi esprimerla?
«Tracce di mare, una raccolta di poesie che editai nel 2015. Sono particolarmente legato a quel lavoro letterario perché nel 2019 mi consentì di vincere il premio “Città di Fabriano”, per la sezione poesia e a completare il terzetto dei lavori finalisti c’erano Giancarlo Pontiggia e Renato Minore, due poeti di grande spessore che peraltro gareggiavano con case editrici piuttosto importanti».

La tua poesia esprime la voglia di conoscere, viaggiare, esplorare. Qual è il senso di questo viaggio per Amedeo Di Sora?
«Il senso finale è proprio la continua ricerca. La vita è un’avventura continua e a me piace viaggiare soprattutto con la mente, senza una destinazione. Il viaggio fa parte della dimensione del sogno, al pari dell’attesa».

Ti piace viaggiare ma la Ciociaria devi averla nel cuore, se hai deciso di restar qui. Cos’ha questa terra di così fascinoso?
«La Ciociaria è un territorio che ha una sua bellezza naturale ed un’importanza storica. Ha confini labili e non delineati in maniera precisa. Ciò che ha di antico mi ha sempre attratto, ma ad esser sincero la ragione per la quale non sono andato via è che negli anni in cui ho iniziato Frosinone era molto più vivace e fertile dal punto di vista intellettuale e ritenevo che la nostra provincia potesse emanciparsi. Queste speranze però non si sono realizzate».

Sei un valente attore e regista teatrale. Puoi svelarci il tuo autore preferito e un ruolo che ti piacerebbe tanto interpretare?
«Il mio autore preferito è William Shakespeare perché è una summa, in lui c’è il sacro e il profano del teatro. Il ruolo che mi piacerebbe interpretare è Amleto».

Spostiamoci verso la scrittura, perché siamo curiosi di sapere chi poni sul primo gradino del podio…
«Albert Camus, perché esprime in modo meraviglioso il senso dell’assurdo e la poetica della rivolta. L’etranger è stato per me una folgorazione negli anni dell’Università. Ricordo di averlo letto tutto in una notte, non riuscivo a staccarmi da quel testo».

Con Palladini e Campasso hai realizzato “Genova tutta la vita”, un bellissimo spettacolo incentrato sulle canzoni di Fabrizio De André. La canzone d’autore, quella che si ispira agli chansonnier o ai poeti maledetti, era il manifesto di molti ma c’è il rischio che diventi la nostalgia di pochi. Concordi?
«Sì, credo proprio che la voglia di esprimere attraverso una canzone qualcosa di proprio e di darle una dimensione artistica e poetica, con dei contenuti all’altezza, sia diventata una rarità. Dal punto di vista dei contenuti mi sento di dire che la situazione è precipitata».

Hai insegnato italiano e latino nei licei. Ti sei sentito coprotagonista nel processo di crescita dei tuoi allievi o ritenevi che fosse prioritario impartire loro delle nozioni, lasciando alle famiglie e ad altri componenti della loro quotidianità il compito del plasmare carattere e personalità?
«Il mio approccio all’insegnamento non è stato asettico, al contrario mi sentivo molto partecipe del processo educativo oltreché didattico. Volevo trasmettere la passione del sapere e della conoscenza e consentire agli studenti di esprimere liberamente le proprie potenzialità. In questo credo che il teatro mi abbia molto aiutato, perché si comunica con voce, gestualità, parole. Ritengo che ogni professore dovrebbe essere un po’ attore e conoscere gli strumenti principali della comunicazione».

Dopo tanti anni vissuti da protagonista sul palcoscenico, riesci ancora ad emozionarti?
«L’emozione deve esserci sempre. Quel che cambia nel corso degli anni è la capacità di padroneggiarla. Nei primi anni l’emozione può condizionarti, ma con il passare del tempo impari a controllarla e a trasmetterla al pubblico, mantenendo il controllo».

Qual è il primo consiglio che dai a chi vuole intraprendere l’arte della recitazione?
«Gli dico sempre che è una scelta coraggiosa, che richiede convinzione, motivazione e passione. Bisogna mettersi continuamente in discussione e lavorare sui segreti del mestiere, specie se si vuol fare teatro. Esistono una serie di tecniche e di esperienze che bisogna assolutamente fare per resistere nel corso degli anni. Nel cinema e in televisione si può replicare, nel teatro no».

Nella tua raccolta “Bagliori vespertini” hai dedicato una poesia a Pietro Anastasi. Quanta magia e quanta poesia possono esserci nel calcio?
«Molti artisti hanno amato il calcio. Faccio due nomi: Pierpaolo Pasolini e Carmelo Bene. Il calcio è uno spettacolo che ha molti aspetti simili al teatro, è un lavoro di gruppo in cui l’individuo è messo in relazione con gli altri, c’è un pubblico e si possono creare giocate che sono artistiche. Pietro Anastasi è stato un artista per le sue acrobazie, un mito della mia gioventù».

Hai praticato qualche disciplina sportiva?
«Da ragazzo giocavo a calcio a livello dilettantistico. Ho cominciato come attaccante, poi mi sono trasformato in una sorta di regista difensivo, un libero non privo di tecnica. Ho anche praticato l’atletica leggera, e in specie le gare di velocità».

Quando hai bisogno di rilassarti leggi un libro, ascolti musica o fai una passeggiata immerso nella natura?
«La mia biblioteca è molto fornita, ho uno studio zeppo di libri e di recente ho dovuto cambiare casa proprio per consentire a tutti i miei libri di essere ospitati degnamente. È nel mio studio che mi sento a mio agio e di regola per rilassarmi utilizzo una buona lettura. Non è infrequente però che mi affidi a qualche passeggiata solitaria o con mia moglie Stefania».

Il rimpianto più grande della tua vita?
«Forse quello di pensare che se fossi andato dove la cultura offre maggiori possibilità di espressione avrei potuto ottenere risultati più eclatanti. È un rimpianto ma anche una curiosità».

Hai scritto “Amedeo, mio nonno”. Se dovessi scrivere una autobiografia, che titolo le daresti?
«Ho vissuto il mio tempo come uno straniero partecipante».

C’è un luogo che vorresti visitare?
«Mi piacerebbe andare in Australia, perché rappresenta una dimensione più ignota».

Se ti fosse concesso intervistare un personaggio storico su chi cadrebbe la tua scelta?
«Mi piacerebbe intervistare Charles Baudelaire, poeta straordinario e uomo dall’animo tormentato».

La speranza è verde, il mistero è giallo e la malinconia che colore ha?
«La malinconia è nera, come l’umor nero degli antichi alchimisti».

Dove porti la donna che ami, in un ristorante a cinque stelle o in un rifugio alpino?
«In un ristorante stellato di un rifugio alpino».

Se potessi trasformarti in un eroe dei fumetti, chi sceglieresti?
«Da ragazzo ero un lettore di Tex. Ecco, superare le avversità della vita con il coraggio e... la buona stella di Tex Willer, visto che le pallottole lo sfioravano sempre e non lo centravano mai, sarebbe sicuramente una buona cosa».

Che rapporto hai con la scienza, la matematica e le discipline che esulano dalla tua professione e dai tuoi interessi primari?
«Ho un rapporto di curiosità. Non sono mai stato predisposto verso queste materie, ma mi affascina il mondo scientifico. Trovo che queste due culture dovrebbero sempre intrecciarsi tra loro e a volte fondersi».

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