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L’ex calciatore del Frosinone... a tutto campo

Adriano Russo, il ruggito del leone giallazzurro

Oggi è un apprezzato ristoratore. Ricorda: «Perché il 16 maggio è una data speciale». E svela i rituali scaramantici

roberto mercaldo


Questione di feeling, cantavano Mina e Cocciante qualche anno fa. Non ci addentriamo nel dedalo inestricabile dei legami affettivi, ma prendiamo in prestito il termine per delineare il rapporto tra Adriano Russo e Frosinone. L’ex calciatore, ora titolare di una pizzeria, ha adottato il capoluogo ciociaro, perché dopo aver chiuso la sua fortunata e meritoria carriera da calciatore, una carriera che a Frosinone ha toccato il suo punto più elevato, ha deciso di intraprendere l’attività commerciale proprio qui, in Ciociaria.

Nato a Napoli, dove il calcio si gioca per strada, è una passione, un rito, quasi una liturgia…
«Certamente la mia passione nasce lì, nella mia città natale, dove tirar calci ad un pallone è praticamente obbligatorio per un bimbo. Tutto comincia da Napoli».

Tifoso del Napoli, ovviamente?
«Certo, tifoso del Napoli. Da bambino andavo allo stadio e sovente facevo anche il raccattapalle, perché militavo nelle giovanili del club».

Essere tifoso a Napoli significa anche vivere nel mito di Diego Armando Maradona?
«Quello è un mito intramontabile, naturalmente. Devo dire in tutta sincerità che la mia militanza nelle giovanili del Napoli coincise con il momento storico forse meno brillante della storia della società partenopea. Ci fu l’ultimo anno della gestione Ferlaino, poi i presidenti Corbelli e Naldi, prima del fallimento. Ma la stella di Diego ha continuato e continuerà a brillare, per sempre».

Anche tuo padre e tuo fratello sono grandi tifosi del Napoli, ma poi quando tu hai indossato altre maglie come si sono regolati?
«Naturalmente, senza rinnegare la passione originaria, si sono affezionati in modo ovvio anche alle squadre per le quali ho giocato, trovando poi a Frosinone un approdo ideale».

Frosinone per te ha significato l’approdo in serie B e anche in A. Non una squadra come le altre, quindi?
«Anche per me il Frosinone è stato senza alcun dubbio il club calcistico nel quale ho vissuto i momenti più belli e più importanti. È stata la piazza più significativa, quella che mi ha dato decisamente di più in termini di emozioni e di soddisfazioni calcistiche».

Se ti dico 16 maggio 2015, quale immagine ti viene in mente?
«Io di regola dimentico nomi, numeri e date, ma questa l’ho sentita nominare così tante volte che ormai l’ho mandata a memoria anch’io. Io mi affeziono al prima, al dopo e al durante più che a una data precisa, ma questa è anche la data del compleanno di un mio compagno di squadra perciò devo ricordarla».

Cosa ricordi di quell’incredibile cavalcata che vi portò in serie A, attraverso una seconda consecutiva promozione?
«Ricordo che l’approccio fu felice. Io sono dell’avviso che sovente le cose che ben cominciano siano destinate a concludersi degnamente. Fu quello il caso, decisamente. Ricordo in modo nitido l’esordio, contro il Brescia, un team quotato, nelle cui fila militava Caracciolo. Vinsi una macchina per il caffè, premio spettante al migliore in campo. La settimana successiva Soddimo vinse 10 bottiglie di vino ed io gli proposi il cambio, perché per me il caffè è quello tradizionale. È uno dei richiami ancestrali verso la mia città natale, il caffè classico con la moca. Con la macchina ora i vantaggi sono evidenti in termini di praticità, ma resto romantico e fautore del caffè tradizionale».

Dopo quelle prime giornate, quando cominciaste a crederci davvero?
«Dopo sei o sette giornate realizzammo un po’ tutti che non eravamo in B per caso e che potevamo recitare da protagonisti. Come ti ho detto, il buongiorno si vede dal mattino. E quel mattino era fulgido».

Un gruppo coeso dentro e fuori dal campo, una famiglia. Confermi?
«Sai, con il senno del poi è facile parlare di gruppo, di famiglia, di grande coesione eccetera. Oggi talvolta si abusa un po’ di questo concetto. Però quello era veramente un gruppo speciale. Vi racconto un episodio illuminante: dopo un paio di impegni ravvicinati, eravamo particolarmente stanchi e il mister decise che al giovedì non ci saremmo allenati, ma saremmo andati tutti al cinema. Badate bene, al cinema di Frosinone eh, non in un’altra città, nella nostra Frosinone. Tutti al cinema e per un giorno niente allenamenti. Si arriva alla domenica e si vince 4-0, non ricordo l’avversaria, ma il punteggio sì. Andò a finire che andammo al cinema ogni giovedì. Se l’avessimo detto allora ci avrebbero preso per matti, ma andò proprio così. Giovedì cinema beneaugurante».

Siamo alla scaramanzia, inevitabilmente. Adriano Russo e la scaramanzia: svolgimento…
«Da giocatore ero decisamente più scaramantico di adesso. Ricordo che avevo alcuni rituali, come quel gruppo whatsapp sul quale non scrissi mai. Quando fu creato avevo il telefono lontano, perciò non risposi. Il giorno dopo vincemmo la gara ed evitai di scrivere. Quando segnai il mio primo gol in A, contro il Verona, trovai 400 notifiche. Mi avevano scritto tutti. Altra mia scaramanzia era quella di entrare in campo sempre in un certo posto della fila. Danilo Soddimo, che aveva un approccio totalmente diverso dal mio alla partita e che viveva a differenza mia le vigilie in modo molto sereno, cercava sempre di rubarmi il posto, per scherzare su questo mio rituale».

Quanto fu difficile ed emozionante giocare in serie A?
«L’impatto fu meno traumatico di quanto si possa immaginare. La squadra con la quale giocai in serie A era composta calciatori che per 3-4 anni avevano giocato insieme. Diverso sarebbe stato piombare nel massimo campionato, magari da giovane, in un contesto di campioni o comunque di atleti con i quali non si aveva alcun precedente rapporto».

Però qualche stadio che ti ha procurato una forte suggestione c’è stato?
«Certamente, come ogni bimbo che dà calci ad un pallone sognavo di poter giocare un giorno a San Siro. La partita col Milan, che poi sarebbe potuta finire ancor meglio per noi, mi ha procurato un grande brivido. Non posso negarlo».

Il ritiro a 32 anni, piuttosto precoce. Perché?
«Ci fu un episodio che in qualche misura contribuì a farmi prendere questa decisione. Quando ero in Romania sembrava che non ci fossero problemi per partecipare al matrimonio di mio fratello, ma poi gli impegni agonistici di fatto m’impedirono di esserci. Lì pensai compiutamente di aprire la seconda finestra della mia vita, che dovesse prescindere dal calcio, almeno inteso come tesserato».

Ed ecco il tuo ritorno a Frosinone e la tua nuova attività di ristoratore con la pizzeria Matusa?
«La scelta di aprire un’attività a Frosinone non è stata casuale, perché è una città che mi ha accolto in modo affettuoso e dove mi sono trovato benissimo. Chi però pensa che io abbia voluto collegare la mia nuova attività a quella precedente non è nel giusto. Niente magliette, autografi o pizze dal nome di calciatori. Io ho cercato di allontanare il locale dai miei trascorsi calcistici, per esaltare il prodotto e non la persona del proprietario. Spero e credo che i miei clienti siano soddisfatti di ciò che propongo».

Vengono a trovarti i tuoi ex compagni e gli attuali giocatori e tesserati del Frosinone?
«Sì, devo dire che calciatori del passato e del presente e anche tifosi frequentano il mio locale. La mia presenza regala un po’ di tranquillità, il mio locale è un po’ una comfort zone. Ricordo che quando giocavo nel Perugia, dopo una sconfitta per 3-0, andai a far spesa ad un supermercato e alla cassa mi dissero: “Le sembra il giorno per far spesa?” Ecco, questo fa parte degli inconvenienti della professione del calciatore. Nel mio locale si è al riparo da queste pressioni».

A Frosinone hai vissuto momenti delicati?
«Per fortuna in quei 5 anni le cose andarono bene. Ci sono state ovviamente anche sconfitte, ma nel contesto di stagioni complessivamente positive. Frosinone è una città con grande passione calcistica, ma i tifosi sanno comportarsi in modo degno».

Come vedi il Frosinone, al via per la quattordicesima volta nel campionato di serie B?
«Dopo le prime giornate capiremo se la scelta di puntare sui giovani sia stata o meno azzeccata. Ritengo però che si sia trattato di un percorso più o meno obbligato. A Frosinone intelligentemente si evita di fare il passo più lungo della gamba. Il criterio della sostenibilità non può essere eluso. Ci sono club che possono contare su introiti diversi e che di conseguenza hanno obiettivi diversi. Presto potremo avere un’idea più chiara del ruolo che reciterà questa squadra nel campionato che va ad iniziare. Come sempre sarà un campionato equilibrato».

Intanto il calcio va sempre più verso gestioni dei club alla stregua di vere e proprie aziende. È finito il calcio romantico?
«Non è da poco tempo che è cambiato l’approccio nel modo di gestire le società di calcio. Guardando però all’esposizione debitoria di alcuni club molto importanti, dobbiamo dire che qualcosa di sbagliato è stato fatto. L’unico modo di uscirne è tenere presente il criterio della sostenibilità. Oggi mi sembra che dei club importanti solo Napoli e Lazio abbiano una gestione che li pone al riparo da sorprese».

La crescita passa anche per la realizzazione di stadi di proprietà?
«Possibile, ma in merito mi permetto di notare che alcuni stadi, per la loro collocazione e per motivazioni “romantiche”, io non li toccherei».

Usciamo un attimo dal calcio e dalle sue dinamiche. Quale disciplina sportiva ti sarebbe piaciuto praticare?
«La pesca subacquea. I miei hobby e le mie passioni sono inevitabilmente legati al mare. Sono di Napoli, che è una città di mare, anche se quando vivi là quasi non lo percepisci. È quando ne sei lontano che ti manca, e che in particolare ti manca tutto ciò che solo il mare può regalarti. Uscire in barca, vivere il mare a 360° è quello di cui la mia anima ha bisogno. Se il lavoro me lo consentisse, dedicherei più tempo proprio a queste attività».

Nostalgia per il campo?
«No, sinceramente. Dopo qualche partita di calcetto dagli esiti catastrofici, perché il mio agonismo non so trasferirlo in una partita tra amici e perciò risulto poco produttivo, ho preferito desistere». Campione di umiltà, Adriano Russo. A sentir lui era solo un agonista, ma il campo diceva altro: difensore di eccellenti doti tecniche, personalità e talento. Adesso fa il ristoratore, con eguale umiltà e altrettante capacità. In bocca al lupo, anzi… al leone!

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