Spazio satira
Social o a-social, questo è il problema
13.02.2016 - 17:48
Le unioni civili, i gay, l'utero in affitto. Sì, ok, ma forse nella vicenda della catechista di Ripi che ha condiviso sul gruppo WhatsApp della parrocchia un messaggio che invitava a boicottare l'esibizione di Elton John al festival di Sanremo, la notizia è anche un'altra.
L'altro giorno la catechista è venuta in redazione per dire la sua, spiegando che in realtà quel messaggio, a firma di un sedicente gruppo di mamme contro le adozioni gay, proveniva da una 'catena di Sant'Antonio' che da giorni girava sui social. La catechista, visibilmente segnata dal clamore suscitato dagli articoli di stampa, ha provato a spiegare che lei non aveva nulla contro i gay e così via. Ma sorvoliamo sul merito del dibattito: la donna si è fatta portavoce di un pensiero, più o meno condivisibile, che è andato in cortocircuito con il suo ruolo di catechista, mettendo in discussione la sua figura.
Un errore? Una leggerezza? Forse il tema è un altro, sicuramente meno appetibile per le cronache giornalistiche, ma altrettanto attuale, urgente, perché anche questo riguarda, a suo modo, dei diritti. Diritti, diciamo così, esistenziali, che possono essere deformati dai social network e dalle app di messaggistica che consentono una comunicazione allargata, condivisa da più persone. Strumenti che danno la possibilità di accedere a una quantità infinita di informazioni, di contatti, in maniera istantanea e gratuita. Ma siamo sicuri che non ci sia un prezzo?
E non parliamo della monetizzazione dei clic, delle inserzioni pubblicitarie "segugio", della gestione dei nostri dati nelle mani delle corporations. Che vi sia un ritorno economico concreto e immediato è sin troppo scontato. Se invece il prezzo più alto che stiamo pagando non consistesse in un utile finanziario, ma in qualcosa di intangibile che riguarda la nostra quotidianità e in particolare i confini tra la sfera pubblica e quella privata di ognuno di noi. Confini un tempo definiti, netti, oggi invece labili, liquidi, a tal punto da diventare la stessa cosa quando mettiamo un "mi piace", commentiamo post altrui, quando non lo commentiamo o semplicemente postiamo un qualcosa che rimanda alla nostra vita intima, familiare, personale con l'aspirazione che altri la condividano.
La nostra anima social, quindi pubblica, si alimenta, ha bisogno della nostra sfera privata, sempre più privata. Così come la nostra sfera privata, per conquistare una legittimazione pubblica, sempre più pubblica, deve alimentarsi, ha bisogno della ribalta social. Ad essere immediatamente connessi con il resto del mondo, tracciabili, visibili, non sono soltanto i nostri gusti musicali o culinari, il nostro pensiero politico, le nostre abitudini commerciali, le nostre opinioni sui temi civili, ma il nostro essere quotidiano che si sostanzia dell'immagine che abbiamo di noi stessi e degli altri; e quella che gli altri, conoscenti e sconosciuti, hanno di noi. Immagine, anzi immagini che passano attraverso l'uso dei social.
E' come vivere dentro una stanza di specchi che rimandano all'infinito la nostra immagine, mostrandone le mille, infinite sfaccettature, ma anche deformandola e quindi di fatto annullandola. Come nel caso della catechista di Ripi. Temi non nuovi, ma da aggiornare. Uno, nessuno e centomila 2.0. Social o asocial, questo è il problema. Gli esiti, ovviamente, sono imprevedibili. Amen.
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