«Amarene chilo uno, vino rosso buono litro uno, spirito un quarto, zucchero un quarto. Aromi: cannella e pezzetti di noce moscata. L'infuso si mette per quaranta giorni al sole, poi le amarene si pressano al torchietto e si fa il liquore». Questa ricetta della Rattafia ciociara fu scritta a mano, a fine Ottocento dalla sandonatese Maria Coletti Sipari ed è conservata nell'archivio privato Buriani del suo paese.
E con questo nome viene riportata nell'elenco dei prodotti tipici e tradizionali del Lazio redatto dall'Arsial. Perché, sia chiaro, in Ciociaria la Ratafia si scrive con due "t"e le merita entrambe. Sì, entrambe, perché è quella che nasce dalla tradizione contadina che voleva e vuole le visciole raccolte nei boschi dei Lepini dove il sole le bacia con un'intensità tale da "farle arrossire". L'aggiunta di vino compie il miracolo della nascita di questo liquore, rosso, intenso, dal sapore unico, dolce ma con quella nota più aspra firmata dalle visciole. Ingredienti semplici a cui lentamente mani sapienti aggiungono alcol e zucchero per farne salire il tenore dei gradi.
La ricetta, passata di bocca in bocca o scritta, e gelosamente custodita sui quaderni familiari di cucina, risale agli inizi del '900 quando, data l'assenza di medicinali all'alba della Grande guerra, si era soliti somministrare come antisettico agli anziani, ma anche ai bambini (oggi, forse costerebbe una chiamata a Telefono Azzurro) proprio la Rattafia ma, a dire il vero, anche come fonte di vitamine e di zuccheri e digestivo, nonché come rimedio per vari disturbi fisici. Addirittura raccontano gli anziani che al tempo "della spagnola", la pandemia influenzale che fra il 1918 e il 1919 si diffuse in quasi tutta Europa, chi avesse assunto questo liquore si sarebbe salvato dalla malattia. Una vera panacea, insomma.
Bisogna dire che la paternità di questo elisir che piace molto anche alle donne è quasi certamente piemontese. Sembra essere nato intorno al 1600 grazie a una "intuizione"dei cistercensi del monastero di Santa Maria della Sala, ad Andorno Micca, in provincia di Biella. E da lì, il liquore, dolce ma non troppo, fruttato e succoso avrebbe invaso l'Italia con ingredienti territorialmente diversi. Per la Rattafia ciociara si usano le amarene selvatiche (visciole) raccolte in ambienti incontaminati e lontani da fonti di inquinamento. Si prepara con l'aggiunta di alcol per liquori o vino rosso che le donano il colore più o meno intenso e ne caratterizzano la gradazione alcolica variabile tra i 20° e 22°.
Dal bicchiere sale fin dentro le narici un odore tipico di frutti di bosco e amarene. Sul palato arriva amabilmente dolce con una nota di aspro che giunge come retrogusto. Le visciole vengono poste in un recipiente di vetro, a chiusura ermetica, ricoperte di zucchero ed esposte al sole per quaranta giorni. Le nonne, però, adoperavano le "dame di coccio"per l'esposizione delle visciole, ricoperte di vino rosso, all'infuocata stella madre del sistema solare. E, dopo che il sole le ha coccolate per il tempo necessario, un colino fa il resto recuperando la scolatura del succo delle rosse delizie che "giaceranno" insieme ad alcol o vino rosso e zucchero, per ben due mesi, "avvolte"dal vetro delle bottiglie. Ratafià o rattafia, di chiunque sia la sua paternità solo quella ciociara ha due "t"e, piaccia o non piaccia, la differenza la fanno.