Massimo Cardillo, partenopeo di nascita ma fiuggino di cuore e di fatto, storico e critico cinematografico, ci racconta la sua grande passione.
Quando nasce il suo amore per il cinema?
«Ho cominciato ad andare al cinema molto presto, sin dai primissimi anni delle elementari, e non ho smesso mai per tutta la vita vedendo a volte anche due film nella stessa giornata. Prima usufruendo di una tessera gratuita di mio padre, comandante di stazione dei carabinieri, poi scrivendo di cinema per alcune testate e infine perché coinvolto in prima persona in eventi a carattere cinematografico. I miei non hanno mai voluto la televisione, diciamo che è arrivata in casa molto tardi, ma mi permettevano di andare nella sala anche tutti i giorni una volta esaurita la mia razione quotidiana di analisi logica e delle canoniche dieci frasi di latino. Entrato al cinema, appena superata quella pesante tenda di velluto rosso, avevo come la sensazione di essere penetrato in una dimensione spazio-temporale diversa e al contempo parallela, che mutava il mio respiro e acuiva la mia percezione della realtà e di tutto il mio essere. Arrivavano buoni film nel paese in cui abitavo, anche pellicole importanti di qualche decennio precedente, che venivano recuperate per quelle serate che il gestore procurava ai più incalliti spettatori innamorati del magico fascio di luce. In galleria c'era un palchetto dove mi posizionavo con la golosità degli occhi e dell'anima, mentre dalla platea ampie volute di fumo a caratterizzare l'ambiente e lo schermo. Le cosce di Lola Lola/Marlene Dietrich ne "L'angelo azzurro", l'interminabile assalto alla diligenza in "Ombre rosse", mentre il battito del cuore accelerava a dismisura, il finale straordinario di "Fronte del porto" con i miei pugni stretti in simbiosi con quelli di Marlon Brando nel ruolo di Terry Malloy a sancire la frantumazione della prevaricazione dell'ingiustizia di Johnny Friendly/Lee J. Cobb. La sera, prima di addormentarmi, dopo aver raccontato il film a mia madre, che voleva anche sapere che cosa ne pensassi, le immagini viste mi passavano al ralenty dinanzi agli occhi con un sonoro sempre più ovattato e lontano. In terza elementare il maestro ci portò a vedere il "Giulio Cesare" di Mankiewicz, e in classe si stupì di quante cose avessi da dire. Forse sono questi i motivi per cui ogni volta che rivedo "Nuovo cinema Paradiso" mi commuovo tanto, mentre ritorno ad avere l'ansia e il respiro di me bambino e adolescente. Poi sarebbero arrivati Franco e Ciccio, i tanti 007/Bond, la "Ciociara", anche se proibita ai sedici anni, la commedia all'italiana, la Grande Guerra, Antonioni, Fellini… il pianto di Zampanò, Sordi e il fisico statuario di Silvana Mangano – stiamo tutti pensando allo stesso fermo immagine! – in "Riso amaro", "Il sorpasso" di Bruno Cortona, dove capii fino in fondo quanto di incredibilmente antropologico ci possa essere in ogni film».
Come si diventa storico cinematografico e chi è lo storico del cinema?
«È un percorso affascinante ed esaltante, direi quasi un'iniziazione che non finisce mai, che dura, per accumulazione, tutta la vita. Lo storico del cinema matura con il passaggio delle stagioni e degli anni, raccogliendo e catalogando materiali, in maniera anche seriale, e costituendo nella sua memoria una vera e propria cineteca dallo spessore sempre più ampio partendo sin dagli anni del muto e della manovella. Uno storico del cinema – che a un certo punto dovrà decidere su cosa specializzarsi, a quale tipologia di film dedicare la propria attenzione precipua – non può non avere fra i propri referenti visivi i grandi capolavori italiani e stranieri del muto, degli anni 30 e 40, e poi, a salire, del Dopoguerra, del nostro neorealismo, degli anni a cavallo del '68, fino alla contemporaneità. Può non aver visto Cabiria? No, non può. Può non aver visto il "Napoléon" di Gance? No, non può. Può non aver visto "Ivan il terribile e la congiura dei Boiardi"? No, non può. Lo storico del cinema scrive anche libri sull'argomento e ne legge in gran quantità per riannodare fatti, eventi, momenti, fili a colori e in bianco e nero di uno stesso discorso che vanno a confluire in nuovi filoni e in nuove problematiche. Si scoprono nuovi orizzonti e nuove dimensioni. Si diventa degli 007 che cercano di procurarsi, attraverso cineteche e collezionisti italiani e stranieri, titoli rari e preziosi che vanno a rimpolpare e nobilitare proprio quella poderosa e fertile cineteca mentale di cui poco fa parlavo. Come una sorta di ricerca del Sacro Graal della celluloide. In questi giorni, tanto per fare un esempio, sto rileggendo l'autobiografia di Leni Riefenstahl dopo aver rivisto i suoi film sulla montagna e soprattutto "Olympia", le olimpiadi del '36, e "Il trionfo della volontà" sul raduno del partito nazista a Norimberga nel '35. Un mese fa ho rivisto una grande quantità di film del periodo della Repubblica di Weimar, che sembrano preconizzare l'avvento di Hitler e del nazismo in Germania. Il rovescio della medaglia è anche il rapporto fra storia del cinema e scuola, un discorso tutto da affrontare, per il quale mi sto battendo fin dai primissimi anni 80, quando ho cominciato a scrivere di cinema e a tenere lezioni in un gran numero di scuole superiori della nostra provincia per spiegare che cosa vuol dire la frase, credo di Bela Balazs, "appena formata la pelle della storia va in pellicola", e che un film, ogni film, va letto per secanti trasversali, che un film, ogni film, è un potente strumento per la lettura della sua contemporaneità e degli strati psichici profondi della realtà che lo ha prodotto».
Come si diventa critico cinematografico?
«Intanto bisogna aver visto un gran numero di film, del passato recente o anche più remoto, per poter fare certi raffronti, individuare scuole e stilemi propri di un certo periodo o di un regista particolare… Ovviamente sto parlando della mia esperienza, che è un magma sempre in fieri e in continuo cambiamento. Non solo c'è compatibilità fra lo storico del cinema e la figura del critico cinematografico, ma si tratta di un binomio sempre auspicabile nella prospettiva dell'apporto di informazioni, intuizioni, movimenti e filoni che la prima figura può riversare sulla seconda, non certamente il contrario. Sarebbe poi auspicabile che colui il quale volesse indirizzarsi verso una scrittura critica, si formasse anche presso qualche cattedra universitaria specifica di Storia e critica del film. Poi, sempre rimanendo nel contesto della mia esperienza personale, non si può non riconoscere il ruolo di formazione attraverso la frequentazione degli scritti di grandi critici del passato e di riviste del settore, a partire dal muto in poi. Penso a pubblicazioni come "LUX", "La Vita Cinematografica", "Cinema", "Film Critica", "Cinesessanta", "La Rivista del Cinematografo". Penso a nomi come Lizzani, De Santis, Lietta Tornabuoni, Kezich, Grazzini, cui mi ha legato una profonda e reciproca stima. Quando poi in sala o sulla poltrona di casa – ma la il televisore è altro dal grande schermo! – l'occhio o la mente affabulata cominciano ad analizzare un film in tutta una serie di altri aspetti e dimensioni… La sceneggiatura, la fotografia, la musica, il montaggio, le metafore visive, ecco che allora il critico del cinema comincia a far sentire la sua voce a fianco dello storico. Ma, ripeto, questo è stato il mio percorso. Ognuno ha fatto il suo, affidando alla penna la propria visione del mondo in pellicola».
Quali sono il filone, il regista e l'attore da lei preferiti?
«È una domanda difficile, dato che ogni giorno si scoprono film, spezzoni, copie sconosciute a tal punto che è praticamente impossibile dare una risposta. Le dirò che amo profondamente il cinema muto italiano, il documentario antropologico, il cinema tedesco degli anni 20, il neorealismo e tutti quei film che ci parlano del loro tempo, come per esempio il cinema italiano dei "telefoni bianchi", che ci racconta un'infinità di particolari sull'Italia in camicia nera, elementi che non troveremmo sui libri di storia. Quando mi capita di essere in una fase di "spleen", mi rivedo la sequenza del ballo del "Gattopardo" e riconquisto la voglia di lottare. Che ricordo l'intervista alla Cardinale, bella da mozzare il respiro! Inseguo l'immagine di lei seduta al mio fianco durante l'intervista e la rivedo nel momento in cui, fradicia di pioggia, la macchina da presa la inquadra sulla soglia di Donnafugata con uno sguardo e un'espressione che ci scaraventano nel gorgo. Vorrei anche citare il nome di un attore che ha sempre riscosso la mia ammirazione: parlo di Marcello Mastroianni, che ho studiato a lungo, che ho frequentato abbondantemente sullo schermo. Come dimenticare, nel finale di "Sostiene Pereira", Roberto Faenza, 1995, l'immagine del protagonista che, sapientemente fotografato da Blasco Giurato, avanza verso gli spettatori per andare a combattere in Spagna contro le milizie di Franco? O la figura del professor Sinigaglia, "I compagni" di Mario Monicelli, 1963, che con grande tenerezza dice alla cocotte di sognare un mondo in cui una donna non debba più essere costretta, come lei, a fare quel mestiere? Ovviamente anche il direttore della fotografia Marcello Gatti – presenza amicale e paterna nella mia vita – è sempre nei miei pensieri e nel mio personale archivio delle meraviglie. Parafrasando Almodòvar, molto di quello che so l'ho appreso dal cinema».