Centinaia di toque blanche hanno riempito nei giorni scorsi una delle sale conferenze del Crowne Plaza di Roma per la convention annuale dell'Assemblea nazionale Fic. Un evento che ha visto la partecipazione non soltanto degli chef che hanno portato la cucina del Bel Paese oltre i confini nazionali, ma anche di rappresentanti delle istituzioni e di ospiti illustri. Il dibattito ha toccato i temi più attuali come il probabile, e forse impellente, arrivo sul mercato della carne sintetica e la standardizzazione del packaging per i vini. È intervenuto su questi argomenti il ministro dell'Agricoltura e della Sovranità alimentare Francesco Lollobrigida, soffermandosi sull'importanza della tradizione ed esaltando l'italianità dei prodotti.

Presente anche il senatore Gian Marco Centinaio che si è pronunciato sugli stessi temi. Sul cibo sintetico è intervenuto, inoltre, il professor Giorgio Calabrese. Ma in una convention di chef che si rispetti non potevano mancare il buon cibo e il buon vino. E allora dopo il dibattito, nel nome dell'italianità più genuina, i soci e gli ospiti hanno potuto godere di un momento di convivialità, accompangato dalle note del pianoforte del musicista Giovanni Ascenzi. Tra le personalità di spicco presenti lo chef Giovanni Scarchilli, che ha ricoperto per diversi anni il ruolo di presidente dell'associazione. Partito da Supino nel febbraio del 1974 per il Canada, dove ha portato con orgoglio la cucina ciociara, Scarchilli ha fatto della divulgazione dei sapori della sua terra di origine una vera e propria missione di vita. In Italia per qualche giorno, in occasione del congresso, lo abbiamo intervistato per conoscere la sua storia e quella dell'arrivo della cucina ciociara sulle tavole canadesi.

Chef, come si pone nei confronti degli argomenti trattati alla convention di Roma?
«La cucina può e deve essere ripresentata e rivisitata in chiave moderna, ma credo che noi cuochi dobbiamo esaltare i valori della cucina tradizionale. E, nel mio caso, soprattutto di quella ciociara».

Cosa ha portato di ciociaro in Canada?
«Anche se non è sempre facile trovare le stesse materie prime che abbiamo in Italia, ho sempre accostato la mia cucina a quella ciociara, cercando innanzitutto di replicare più fedelmente possibile quello che ci hanno insegnato le nostre mamme, preparando, per esempio, la pasta fatta in casa, come fettuccine o fini fini. Sempre rigorosamente fatti a mano».

Ci sono prodotti nostrani che ha portato nelle sue cucine?
«Per quanto riguarda i vini io sono sempre stato un fanatico del Cesanese del Piglio. Il mio ristorante è stato il primo a proporlo. In questo periodo, poi, sto portando avanti un progetto insieme a mio cugino, titolare del caseificio "Scarchilli", per cercare di portare in Canada i nostri prodotti caseari. C'è un'importante presenza di ciociari nel Paese e a tutti farebbe piacere avere i prodotti della propria terra. Aiutando a esaltare i nostri prodotti per trasmettere l'amore per le nostre origini. E in questo a Toronto siamo anche supportati dal club ciociaro».

Qual è la sua storia?
«Sono partito da Supino cinqunt'anni fa alla ricerca di qualcosa di nuovo, come tutti quelli che emigrano. E ben presto mi sono introdotto nel mondo della ristorazione. All'epoca in Canada la cucina italiana era praticamente inesistente, soprattutto per quanto riguarda i prodotti. Quando sono arrivato c'erano soltanto tre ristoranti italiani, ma di italiano c'era pochissimo ed era tutto piuttosto improvvisato. Oggi le persone viaggiano di più e conoscono nuove cose, rendendo la vita più facile al ristoratore. Ma all'inizio eravamo costretti a cucinare piatti "italiani" che di italiano avevano poco. Si faceva principalmente quello che chiedeva il cliente. Poi quando si costruisce una certa relazione con la clientela si può suggerire e consigliare qualcosa di diverso, ma questo è un processo molto lento».

Ha detto di essere partito "alla ricerca di qualcosa di nuovo". Quindi ha scoperto dopo la partenza la sua vocazione per la cucina?
«Sono arrivato in Canada con un diploma da perito elettronico, ma era un lavoro che non dava un guadagno adeguato. Conobbi un ragazzo che faceva il cameriere in un ristorante italiano e che mi presentò al titolare. In quel momento non c'era un posto come cameriere, per cui iniziai a lavorare come lavapiatti. Come è successo a molti, appena si arriva bisogna fare quello che non vogliono fare gli altri. Ho iniziato con un lavoro molto umile, ma di positivo c'era che si mangiava molto bene. E non mi ci è voluto molto per capire che la mia strada era la ristorazione. In quel momento, però, non ero qualificato per questo lavoro, per cui sono andato a scuola serale. Ho fatto un corso di contabilità, uno di cucina base e uno di bartending. Dopo un paio di anni ero pronto. Ho rilevato, insieme a un socio, un'attività che si chiama ancora oggi "Il Vesuvio". Abbiamo tenuto questo ristorante per circa quarant'anni. Venticinque anni fa sono entrato a far pare dell'Associazione Italian chef of Canada e dopo quattro anni sono stato eletto presidente, continuando sempre a portare avanti la mia missione di diffondere la cucina italiana, e soprattutto ciociara, in Canada».

Cosa fa oggi?
«Ho venduto il mio ristorante dieci anni fa ma sono rimasto sempre nel campo. Ho deciso di aprire una scuola di cucina a Milton, nel ristorante "Pasqualino", dove tengo cooking class per adulti. Insegno le ricette più "simpatiche" e i miei allievi si divertono a impastare gli gnocchi, i fini fini, le fettuccine, le pappardelle. E tutto questo per portare avanti la mia missione in nome e nel rispetto della cucina tradizionale».