Durante l'antichità ci si pose il problema di "come" si scrive un testo drammatico, in modo che la sua rappresentazione comunicasse le esatte emozioni e le idee che l'autore voleva far arrivare al pubblico. È la Poetica, che Aristotele compose tra il 334 e il 330 a.C., il più importante scritto nel quale si delineano la natura del testo teatrale (in particolare la tragedia), i suoi elementi fondamentali, lo stile e la finalità (il famoso effetto della "catarsi"). Anche il poeta Orazio compose un'Ars Poetica (13 a.C.), nella quale sintetizzò, sulla falsariga di Aristotele, le teorie sulla natura, gli scopi e gli strumenti della poesia drammatica.
Nei primi secoli dell'era cristiana, quando il gigantesco impero romano cominciava a sgretolarsi, i Padri della Chiesa (Agostino e Tertulliano su tutti) furono severissimi nel rifiutare e condannare il sistema degli spettacoli dell'antichità, che di conseguenza il teatro cominciò a perdere identità e anche la riflessione teorica sul come si scrive un dramma cadde nell'oblio. Non a caso la Poetica aristotelica è sconosciuta all'Occidente medievale, almeno fino al XIII secolo, quando alcuni studiosi, come Ermanno il Tedesco e Guglielmo di Moerbeke, la traducono in latino basandosi sulle versioni arabe di Averroè.
Eppure il medioevo non fu un'epoca insensibile alla poesia e al teatro: basti pensare alle testimonianze sull'attività dei giullari che, pur condannati dalla Chiesa, erano apprezzatissimi dal pubblico. E fu un'epoca in cui, confrontandosi con l'Ars Poetica di Orazio, i letterati si interrogarono su cosa fosse una tragedia o una commedia. Infatti, nel genere letterario delle artes poetriae, il medioevo ci ha tramandato alcuni scritti su come avveniva la creazione poetica: in particolare l'Ars versificatoria di Matteo da Vendôme spiega anche l'intreccio di dialogo e narrazione che è alla base di una particolare forma teatrale sviluppatasi nelle università tra il XII e il XIII secolo: la commedia elegiaca.
Per chi voleva diventare un auctor (nel medioevo si cominciava con l'essere scriptor, cioè ricopiatore di testi composti da altri autori, e dopo un lungo apprendistato, si poteva diventare auctor, cioè produrre testi propri) era imprescindibile la conoscenza tanto delle artes poetriae quanto dell'ars dictaminis (ovvero dell'arte della composizione) che dall'ars narrandi (utile a chi volesse scrivere opere storiografiche o narrative). Significativamente, nel "De Vulgari Eloquentia" Dante definisce i poeti provenzali dictatores.
Nella prima metà del XIII sec. fu attivo Stephanus de Sancto Georgio, nativo di San Giorgio a Liri, uomo di corte ed esponente di rilievo dell'ars dictandi. Arte che, anche grazie a Stephanus, divenne il modello di qualunque dettato, comprendente anche la letteratura d'invenzione (e quindi le commedie), tanto quella scritta in latino quanto quella in volgare. In Terra di Lavoro, infatti, prese corpo la "scuola di Capua", che formò numerosi e importanti dictatores, sparsi poi presso le corti di tutta Italia ed Europa. Di tale tradizione, che può essere fatta risalire ad Alberico di Montecassino (autore nel 1080 di un "Breviarium de dictamine"), oltre a Stephanus, bisogna ricordare anche Terrisio d'Atina, e il più noto Pier Delle Vigne, che Dante ricorda tra i suicidi nell'Inferno.
Formatosi probabilmente a Montecassino, Stephanus, oltre ad una brillantissima carriera come consigliere politico per la corona inglese e per il papa, raggiunse vertici di competenza letteraria altissimi, tanto che l'arcivescovo di Benevento Giovanni di Castrocielo lo indicava come l'unico del suo tempo capace di leggere e trascrivere antichi manoscritti. Che l'ars dictandi di Stephanus non fosse aliena dai precetti dell'arte poetica e ai modi parodico-satirici tipici di certa letteratura giullaresca, è attestata da una sua opera piuttosto singolare, indirizzata al futuro Bonifacio VIII. Si intitola "Reprobatio sermonis de Nemine", e risale probabilmente al 1290. Stephanus condanna, in tono satirico, un sermone (di tono altrettanto derisorio) intitolato "Nemo", dal nome di una fantomatica divinità contemporanea e concorrente al Dio cristiano.
ùImmaginate: un alto funzionario di papi e re si diverte a confutare le assurdità di un sermone fintamente miscredente, quasi imitando il tono e i modi dei giullari di piazza, ma conservando una parvenza di autorità. Un gioco scherzoso, lontano dalla serietà del lavoro di corte, e privo di un concreto oggetto di discussione, in cui la raffinata ironia è quasi prodromica della commedia umanistica che di lì a poco Petrarca inizierà. Il testo della "Reprobatio", insieme con una sua dettagliata analisi, si legge in un articolo di Fulvio Delle Donne, "La satira e la dottrina della cura del cardinale Benedetto Caetani: la Reprobatio sermonis de Nemine" di Stefano di San Giorgio, in "Rivista di Storia della Chiesa in Italia", n. 1, 2008, pp. 3-24.