Credo davvero che questa inedita e corposa raccolta di opere che Fausto Roma offre allo sguardo e all'ascolto degli altri, segni un momento di riflessione intima dell'autore, ovvero un "luogo" contaminante in cui raccogliere e affermare il senso recente della propria ricerca. Senz'altro una ragionevole stazione di sosta, un appuntamento con il presente (che già prefigura il divenire) di un artista capace di "frenare" il tempo o quanto meno di congelarne le attese. Mai – e ribadisco mai – Fausto Roma si è lasciato dominare dall'impulso (talvolta gratificante) di "assecondare" il senso del suo impegno ritagliandosi oasi o cortili di "attesa", come se il "gesto" – epicentro della sua narrazione – alimentasse, di volta in volta, inedite supposizioni, consequenziali energie da spendere. O da elargire.

Ma c'è di più, o paradossalmente di meno, ovvero quella necessità di sottrarre peso e misura – finanche volume – ad una ragnatela di segni e cromìe talvolta debordante, affollata di musicalità incessanti. Come a restituire un'anima esclusiva alla matrice, isolandone perfino la spazialità e restituendo a quest'ultima un ruolo defilato, quasi estraniato: non più di alveo rassicurante, non già di architettura di ipotesi e nemmeno sovrastruttura di conforto.

È scomparso il "cielo" (con le sue innumerevoli declinazioni), al pari dell'orizzonte che detta lontananze e intrighi. I "calligrammi" di Roma appaiono in un'inconsueta nudità, sospesi, lontani e presenti al contempo: quasi un processo di vivisezione del carattere che si fa – nell'intera raccolta di dipinti, sculture, carte, vetri, ceramiche – epilogo di camminamenti remoti, di intermezzi, di calpestati indugi. Forse un nuovo ruolo affidato alla "trasparenza", che fa dell'opera – delle opere – un inedito indizio di dialogo, di confronto, di scrittura. 

Il testo – il gesto, il segno, l'indirizzo – si fa centralità esclusiva, svuotato di ogni presumibile congettura. Ecco allora che la simbologia primitiva – scelta quasi come parola narrante – è oggi per Fausto Roma il terminale di ogni considerazione, un alfabeto primario che nella sua essenza si propone come intesa comune, non filtrata, diretta. Non ci sorprende allora – o forse sì – la titolazione suggerita e fortemente meditata: "Ascoltare l'arte", ovvero il tentativo di fare di questo incontro un'esperienza non consueta, esclusiva, confondente. Come lo può essere il senso musicale del segno, di una traccia, di una scia.