In un'ideale mistura di cifre, di presenze, di narrazioni, la mostra "War in progress" accoglie e raccoglie le opere di otto artisti che non pronunciano parole (pardon, osservazioni) di condanna o di censura, piuttosto testimoniano "lo stato dei fatti" alimentando comunque ben altre stime o riflessioni. La titolazione della mostra ne è l'esempio lampante: asciutta, priva di fronzoli, chiara. Come un "reportage" che abbozza il cortile dei fatti irrevocabili senza sollecitare posizioni o strategie in divenire.

Lo faranno, probabilmente, gli occhi degli altri, quelli che stabiliranno una metrica personale cucita sulla commozione o sulla negligenza dello sguardo. Otto opere – otto artisti – che testimoniano l'accaduto lasciando all'interlocutore fortuito l'occasione di rimestare ferite, cogliere memorie e soste, allontanarsi dal dolore o amplificarlo nei sensi. Curata da Umberto Cufrini, la mostra è un cammino breve ma intenso dove scorrono immagini "datate" (qui intese come opere di autori scomparsi) e testimonianze dell'ultima ora. Quasi a ribadire che non è il tempo, e neppure il luogo, a rendere dissimile l'orrore.

«Non ha padroni o domicilio la guerra, ma rovine di sguardi e cuori, di dolori smisurati, di miseria e impotenza…» mi capitò di scrivere in passato presentando opere che "raccontavano" la guerra in un'al tra latitudine, con altri eserciti, in un altro tempo. Come pagine ciclostilate per ogni occasione con piccole correzioni a margine. Null'altro. La conosceva bene la guerra Umberto Mastroianni che ne ha scolpito la deflagrazione, l'istante in cui la materia rastrella l'incredulità ferita, lo sguardo all'ultimo miglio, il torpore di ogni ragione, ciò che resta della coscienza e del corpo.

Al pari di Vittorio Miele che ai corpi ha restituito la genesi del terrore – quella che affama e ruba, che non ridà accento o certezza – lasciando li come spettatori rinsecchiti, perduti, senza carezze. La conoscono bene i "volti" che Italo Scelza ha offerto a noi come recapito fievole, esausto, senza respiro, prigionieri di un dovere o del fato. Poi c'è la guerra di chi non l'ha "vissuta" ma non per questo "meno dicibile".

Perché, come si diceva, essa non ha padroni o domicilio, piuttosto è in ogni recesso del nostro animo, in un luogo occasionale che, come ebbe a scrivere Susan Santog può essere «Kabul, Sarajevo, Mostar Est, Grozny, i sedici acri nella parte meridionale di Manhattan dopo l'11 settembre, il campo profughi di Jenin…». Allora gli autori più giovani di questo evento – Federico D'Ambrosi, Simona La Mattina, Guido Pecci, Alessia Zolfo e Umberto Cufrini – narrano anch'essi gli sfregi e i rumori, l'attesa e la preghiera, dando richiamo alla sofferenza di un tempo, il nostro, che non fa sconti e che non ci mette al riparo.

Info
La mostra si è inaugurata mercoledì scorso, alle 18 negli spazi dell'osteria Moca in via Minghetti a Frosinone. Previsto un intervento musicale a cura di Rossano De Rosa su pagine di Chopin e Shubert. Fino al 13 maggio.