Il Prodotto interno lordo non è cresciuto nel secondo trimestre del 2016. Lo ha certificato l’Istat, gelando le speranze del Governo. Nell’anno in corso la crescita potrebbe attestarsi intorno allo 0,7%, con un leggero rialzo rispetto allo 0,6% del 2015. Ma non è certamente con la logica dello “zero virgola” che l’Italia può pensare di ripartire.
I numeri hanno la testa dura, mentre la politica continua ad andare avanti come se nulla fosse. Le previsioni economiche gettano una luce ancora più paradossale su quanto sta accadendo da parecchie parti. Al Comune di Roma dimissioni a raffica hanno già messo all’angolo la sindaco Virginia Raggi e le lacerazioni all’interno del Movimento Cinque Stelle non sembrano diverse da quelle di altri partiti. A livello locale, tutti concentrati sulle prossime elezioni (provinciali, comunali, politiche e perfino regionali). In un contesto dove gli occupati diminuiscono, i disoccupati aumentano, i consumi restano fermi, sempre più famiglie scivolano nella fascia di povertà, le infrastrutture non si fanno e tutto il resto.
Il solco tra il Paese reale (quello composto dalle famiglie che non ce la fanno ad arrivare neppure alla metà del mese) e il Paese virtuale (quello dei palazzi della politica, insonorizzati rispetto ai problemi quotidiani della gente comune) è ormai un baratro. 
Da quanti anni sentiamo ripetere che c’è bisogno di sacrifici, di lacrime e sangue? Da quanti anni sentiamo ripetere che per la ripresa è necessario ridurre il carico fiscale sulle imprese e sul lavoro? Poi però, ogni volta che si tratta di avere un riscontro di tipo tecnico-economico, i numeri sono sempre al ribasso. E non c’è mai nemmeno una presa d’atto da parte della politica, ad ogni livello, per sottolineare che evidentemente le “ricette” non funzionano. E alle elezioni ormai prevale il voto “contro”, che alla fine penalizza soprattutto chi governa e amministra. Ma se neppure i cambiamenti producono risultati, allora il problema è di classe dirigente nel suo insieme. O no?