Ci sono anche loro, i genitori. Collaboratori inconsapevoli della compagnia dei carabinieri di Cassino che ha sgominato la banda dello spaccio in piazza Labriola, capeggiata da Ferreri-Panaccione. Mamme e papà che negli ultimi due anni telefonavano ai militari o si recavano direttamente in caserma per raccontare lo “scempio” di quel salotto buono trasformato nello scantinato dello spaccio.

Le loro erano ansie che si focalizzavano innanzitutto su risse e pestaggi. Erano continue ed improvvise. E assistevano ragazzini di 12 e 13 anni, l’età in cui inizia a formarsi una personalità e le influenze sono vitali. Questo raccontavano le mamme: c’erano quei “soggetti strani” che arrivavano a davano botte a tizio o a caio. Il tempo di dargli una bella lezione e poi la scena si smaterializzava così come si era composta in pochi istanti. “Sono pericolosi” diceva - noi papà, in riferimento ai pestaggi tra i giovani che minavano la serenità della piazza. E le descrizioni sembra che portassero dritte ad alcuni soggetti coinvolti nella maxi operazione. Quelli che più di altri, all’interno della «squadra», avevano proprio il ruolo di punire chi non si adeguava, chi non pagava la tangente per lo spaccio (i 250 euro al mese), chi apparteneva a un gruppo rivale, chi aveva debiti.

Quei ragazzi in guerra

Logiche interne a quella «famiglia» di giovani e giovanissimi finiti nella maxi operazione degli uomini del maggiore De Luca. Le botte, secondo gli inquirenti, erano il principale avvertimento per chi doveva capire e avvenivano proprio lì dove si ambiva ad avere una fetta di mercato. Le “vittime” in genere non sporgevano denuncia per paura. Rendendo più difficile l’opera dei carabinieri che tuttavia, grazie ad articolate indagini, sono riusciti a ricostruire il quadro del“clan” che ha portato alle 19 misure cautelari.

Il racconto

C’è un esempio emblematico e riguarda un minorenne «brutalmente malmenato dal “Blanco” che non ha sporto denuncia per paura di ritorsioni», scrive il giudice nell’ordinanza. In una conversazione, poi registrata, emergerebbe che lo stesso minore avrebbe fatto il nome del suo aggressore - il Blanco, appunto - riportando gravi danni tra cui il perforamento di un timpano e la mobilità di alcuni denti. «Da un’altra conversazione emerge inoltre che per poter picchiare qualcuno in piazza Labriola era necessario ottenere il consenso» da parte dello stesso soggetto, ora arrestato. Un universo, insomma, costellato di episodi di piccola criminalità che nascondeva dietro enormi interessi. E che allarmava le famiglie.

Gli affari e i guadagni

Ma gli affari erano troppo importanti. La “domanda” alimentava un ricco mercato. Dai ragazzini alle donne, dai disoccupati ai professionisti: l’esigenza di rifornimento era continua e la volontà di controllare quella piazza era fondamentale. «Il giro d’affari dell’associazione criminosa è ingente e particolarmente proficuo», scrive ancora il giudice. L’entità del “giro”si comprende da un’altra intercettazione dove vengono citati costi e guadagni. Dice uno degli arrestati in una conversazione: «Davo un panetto a uno e il venerdì o il sabato sera era già venduto». E più avanti: «Hai capito? lo vendeva tutto a stecchette... lo levavano a pacchettini... e ogni pacchettino da 10 stecche imboscati, un pacchettino alla volta se lo pigliano e la levano 30 o 40 pacchettini a sera... il sabato a 30 o 40 pacchettini a dieci stecche l’uno sai quanti sono? Sono 3 o 4.000 euro, tutto a sporco... è tutto guadagno». Ecco perché, secondo gli investigatori, era necessario «creare un clima di terrore mediante il ricorso alla violenza da usare nei confronti di chiunque tentasse di minacciare il dominio». Cioè, quegli affari così ricchi.