L'operaio non combatte più. La "bestia" lo ha divorato giorno dopo giorno. Non adesso. Qualche anno fa. Per lui ora parlano le carte processuali. C'è una sentenza che dice come e perché se ne è andato al Creatore: ha contratto sul posto di lavoro il tumore del sangue che lo ammazzato. E la sostanza killer è stata la benzina per pulire i portavivande degli aerei di linea. La sentenza del giudice del lavoro Massimo Lisi non lascia scampo a interpretazioni: "Alfredo Lauretti ha contratto leucemia mieloide acuta a causa delle lavorazioni effettuate quale dipendente della Iacobucci Metalworkers e il decesso è stato causato dalla stessa malattia". Termina così la battaglia giudiziaria tra la famiglia e i titolari di una delle più note aziende del tessuto imprenditoriale del Frusinate. Uno scontro, fatto di perizie e controperizie, durato anni. Che si è concluso con una condanna pesantissima. Perché l'uomo, stando a quanto stabilito dal magistrato, quei carrelli li aveva lucidati con guanti non conformi e con maschere non adeguate. Immergendo in una vaschetta contenente benzina un tampone per lucidare quegli attrezzi spinti dalle hostess sugli aerei. Per farlo bene doveva persino infilarci la testa dentro. Ce n'è voluto di tempo per accertare le responsabilità. Non per la lentezza della giustizia. Piuttosto a causa della complessità di una morte sul lavoro che ha richiesto perizie di elevato livello. E stavolta pure la benzina, si fa per dire, è finita sul banco degli accusati, senza troppi giri di parole. A confermarlo sono stati diversi colleghi di quel povero cristo. Che nel reparto di Galvanica avevano lavorato con lui. Gomito a gomito. Testimoni oculari che al cospetto del giudice hanno riferito come avveniva lo sgrassaggio delle lastre di alluminio grezzo. «L'operazione – ha ricordato uno di loro –veniva effettuata utilizzando un diluente nitro. Durava circa un'ora al giorno e nell'arco di un turno di 8 ore potevamo fare questo lavoro 5-6 volte per 10 minuti alla volta». Per poi aggiungere che quella sostanza aveva un odore che «dava fastidio. Tutto veniva fatto manualmente, senza utilizzare le mascherine, in una zona di un capannone che era priva di cappe, presenti soltanto al di sopra delle adiacenti vasche con soda e acido solforico». Le protezioni in dotazione, da quanto emerso dai racconti, erano inefficaci «perché servivano solo per la polvere». Lauretti, all'epoca dei fatti, fu assegnato anche alla pulitura finale. «Questo secondo lavoro - hanno aggiunto i suoi ex colleghi - che poteva protrarsi anche per l'intera giornata, veniva effettuato utilizzando come solvente la benzina per autotrazione, senza l'impiego di mascherine protettive idonee a filtrare i vapori di solvente e dello stesso carburante».

L'ambiente era senza aspiratori. «E l'operatore era costretto a infilare la testa all'interno del carrello». Ma nonostante le lamentele degli operai, l'azienda non adottò nessuna particolare misura, «se non quella di fornire ai dipendenti inutili mascherine di carta». La difesa, a tal proposito, ha sostenuto che le stesse fossero costituite da due strati di "tessuto non tessuto" e da uno centrale di carboni attivi e che, quindi, fossero idonee allo scopo, ma tale circostanza, smentita dall'istruttoria, non ha trovato supporto nella produzione di schede tecniche o di documenti fiscali di acquisto. A volere a tutti i costi la verità è stata la figlia. Che non si è mai rassegnata al fatto che il padre se ne fosse andato prematuramente. E con l'ausilio della madre, anche sapendo che il cammino per raggiungere la meta della giustizia sarebbe stato lungo e zeppo di insidie, ha deciso di non demordere. Diversi sono stati i punti chiariti dal consulente incaricato dal giudice Lisi. La Ctu, infatti, ha evidenziato che con l'impiego di un guanto non adatto a proteggere le mani dal contatto con un particolare tipo di sostanza, si può verificare la diffusione della stessa al suo interno. Con la conseguenza che può permanere sull'epidermide delle mani, con una concentrazione ancora più elevata rispetto a quella che si potrebbe avere in assenza di guanto, perché non può essere allontanata con la naturale ventilazione. Ciò determina un maggiore assorbimento nell'organismo per contatto cutaneo. Inoltre è emerso pure che la vittima aveva usato prodotti con una concentrazione di benzene maggiore di quella di un solvente utilizzato nella sperimentazione della stessa Ctu.L'esposizione al benzene di Alfredo Lauretti fu, dunque, talmente significativa che nel corso di un controllo venne a galla una riduzione di tutti gli elementi cellulari del sangue, e in particolare dei globuli rossi. E per questo venne dapprima ricoverato all'ospedale di Frosinone e subito dopo al Policlinico Gemelli di Roma. Fu lì che i medici diagnotiscarono la leucemia acuta mieloide con displasia e lo sottoposero a chemioterapia antiblastica. Poi il lungo calvario. Fino al 30 marzo del 2006, quando, dopo aver lottato contro la "bestia", chiuse gli occhi per sempre. Non sapendo che il suo sangue era impazzito per l'opera che svolgeva. Ma con una sentenza di ben trentacinque pagine, il giudice Massimo Lisi ha stabilito che la responsabilità è della Iacobucci Srl. E la famiglia di Alfredo Lauretti va risarcita con un milione e trecentomila euro.