«Mi sarei fatto ammazzare per lui. Emanuele cerebralmente è morto quella notte. Correva tra le macchine, fuggiva da tutte quelle persone che lo rincorrevano. Correvano tutti dietro a lui. Ho provato a raggiungerlo, a farmi spazio, ma mi hanno fermato. Quando sono riuscito ad arrivare da lui, ho visto che stava per ingoiare la lingua, ho provato a tirargliela fuori. Loro continuavano a colpirlo. E poi si sono concentrati su di me».

Lacrime, una dietro l'altra, da quegli occhi verdi. Voce rotta dal pianto, da un dolore troppo grande e da un rimorso che non riesce a dargli pace. Avrebbe voluto salvare il suo amico, avrebbe voluto fermare quelle bestie che si sono scagliate contro quello che per lui era un fratello. Ma è stato fermato. Gianmarco Ceccani non riesce a darsi una ragione. Proprio lui che, invece, è stato l'unico a cercare di fermare quella inaudita ferocia, si sente in colpa. Lui che contro tutti si sarebbe fatto uccidere per salvare il suo migliore amico.
Non è stato semplice provare a farci raccontare quello che è accaduto quella notte. Non voleva parlare, perché lui non si sente un eroe, anzi. Non si capacita per il fatto di non essere riuscito a fermare il branco. «Menavano tutti, lo hanno preso a calci come fosse un cane». Tutti contro Emanuele. Una scena che Gianmarco non dimenticherà mai.

Sulla sua bacheca Facebook l'altra notte, ha postato una frase, poche parole, ma che racchiudono tutto il suo dolore. «Non riesco a darmi una ragione. Non può essere vero. È inaccettabile tanta infamia, sto soffrendo troppo, ho il cuore a pezzi. Perché deve essere così crudele la vita». Poi anche una foto con Emanuele, scattata nel bar di famiglia. «Siamo cresciuti insieme».

Per Gianmarco, più grande di un anno, Emanuele era più che un amico. «Era come un fratello per me. A me non piaceva la caccia, ma lui veniva a buttarmi l'acqua sul viso per svegliarmi e convincermi ad andare con lui. E così, poi, era riuscito a coinvolgermi. Se sentivo colpi di fucile, sapevo già che era lui. Era un amico davvero unico e in gamba. Era molto contento, da poco stava facendo uno stage alla Abb Sace. E gli avevano assicurato che al termine gli avrebbero fatto un contratto. Ieri saremmo dovuti andare a fare gli asparagi. Mi aveva detto "fatti trovare pronto lunedì che ti porto in un posto dove ce ne sono tantissimi". Invece adesso non posso più condividere nulla con lui». E qui la voce di Gianmarco si interrompe di nuovo. Scendono lacrime, impossibile fermarle. Commuove anche noi. Troppo forte il suo dolore. Indimenticabili, come un nastro che si riavvolge, le scene davanti ai suoi occhi.

A che ora sei arrivato nel centro di Alatri?

«Poco prima che accadesse tutto. Emanuele mi aveva chiamato per dirmi che mi aspettava al Miro. Avevamo già un appuntamento. Appena arrivato davanti al circolo ho visto che un buttafuori lo stava allontanando ed Emanuele che corre va e tante persone che lo inseguivano. Lui fuggiva, tra una macchina e l'altra. Non sapeva dove andare. E loro continuavano a inseguirlo. A quel punto ho cercato di raggiungerlo, ma mi hanno fermato. E lui continuava a correre. Poi lo hanno picchiato, erano tanti, una quindicina».

Hai riconosciuto le persone che lo hanno pestato?

«No, non sono riuscito a vedere i loro volti, erano tanti, c'era troppa confusione e il mio pensiero era soltanto quello di salvare Emanuele. Ma non ci sono riuscito». Si interrompe di nuovo. Piange.

E poi cosa è successo?

«Poi sono riuscito a raggiungerlo, ma era troppo tardi. Era a terra, stava ingoiando la lingua, ho provato a tirargliela fuori, mentre tutti continuavano a colpire con calci, arrivati anche a me. Poi sono arrivati i carabinieri e mi hanno caricato sulla macchina, come se fossi stato io a colpirlo. Io mi sarei fatto ammazzare per lui! Volevo fermarli tutti, ma non ci sono riuscito. Emanuele è morto cerebralmente venerdì».

Tanti i commenti sulla bacheca di Gianmarco, di quanti lo ringraziano per il suo grande gesto. Il solo, che ha provato a fermare il branco, rischiando lui stesso la vita.