Conosco Lorenzo dai tempi del liceo e, rimanga tra noi, mi riempie d'orgoglio il fatto che stia per pubblicare un altro libro. Già, un altro. Perché anche se a molti di voi probabilmente il suo nome suonerà nuovo, in realtà il mio "compagno" di storie ne ha già scritte diverse. Nato ad Alatri, come me nell'ormai lontano 1987, Lorenzo Latini ha pubblicato nel 2011 una raccolta di racconti, "Nonno Gè", e una sceneggiatura, "Call to Arms".

L'ultimo lavoro di Lorenzo Latini, "Come Dennis Bergkamp – O l'amore ai tempi del giornalismo sportivo precario", che sarà presentato dall'autore per la prima volta nella biblioteca comunale di Alatri il prossimo 11 marzo, è un romanzo sull'amore, sull'amore per il calcio, sull'importanza della letteratura e della musica. Non a caso all'inizio di ogni capitolo Lorenzo ha scelto per il lettore una canzone, immaginando che lui/lei la ascolti mentre lo legge. È la storia, che prende spunto da vicende vissute in prima persona, di un ragazzo di quasi trent'anni, che per vivere fa il giornalista sportivo: è precario, quindi pagato in nero. Anzi, sottopagato in nero, e vive una situazione di redazione tragicomica. Ha colleghi che prendono farmaci per reggere turni di dodici ore al giorno, ha un capo che è il peggior coatto romano, per di più della Lazio. Il protagonista conosce dunque una ragazza e si innamora. Ma nel libro c'è anche tanto calcio. Lorenzo analizza il suo rapporto con la Roma e con questo sport straordinario. Confessa alla sua fidanzata che lei è proprio come Dennis Bergkamp… Di più non sveliamo. Poi i due si lasciano, lei parte per l'Inghilterra e lui crolla: il lavoro non dà soddisfazioni, la ragazza lo ha piantato, è frustrato e non riesce a vedere un futuro. Piano piano, però, Lorenzo riuscirà a prenderla con filosofia e a rendersi conto che, nonostante le difficoltà che uno può incontrare nella vita, ci sono sempre dei motivi per cui vale la pena viverla ed essere felici.

La sera dell'intervista ci sediamo davanti a una birra e a un piatto di costine di maiale: doveva essere una conversazione informale, ci sarebbe sembrato strano farla diversamente...

Conoscendo la tua timidezza, come ti è venuto in mente di dare al protagonista il tuo vero nome? Non ti preoccupa che tutti conoscano "gli affari tuoi"?

«Il romanzo racconta storie reali, che ho vissuto personalmente, quindi mi sarebbe sembrato ipocrita usare uno pseudonimo. Per me scrivere è molto più facile che parlare a tu per tu con un interlocutore: non c'è quel disagio e quella timidezza che si prova quando ti devi aprire con qualcuno che hai davanti. Quando ho qualcosa da dire, io in genere scrivo».

Com'è nata l'idea del libro?

«In realtà non si può dire che sia "nata", è una cosa che avevo dentro da un sacco di tempo. Facendo per due anni il giornalista sportivo per altre testate mi era venuta quest'idea: perché ero precario, perché non vedevo un minimo futuro e venivo da una storia sentimentale finita male. Credo che sia una condizione abbastanza frequente nei ragazzi della mia generazione: l'ho scritto anche per questo, perché onestamente non mi è capitato di leggere romanzi recenti che trattino l'argomento del precariato. Credo, o forse spero, di essere riuscito a raccontare abbastanza bene e con tono ironico la condizione di un quasi trentenne italiano che si trova a entrare nel mondo del lavoro sottopagato e sfruttato. Nel giornalismo poi, come racconto nel mio libro, puoi ritrovarti a sostenere colloqui con dei direttori che ti offrono 200 euro al mese, quando te li offrono, per lavorare sei giorni a settimana. Oppure ti ripagano in "visibilità"…».

Tu la tua visibilità invece la cerchi tramite altri tipi di scrittura...

«Sì, anche. Ho scritto questo romanzo due anni fa, quando per un'estate mi sono trovato senza lavoro, e siccome avevo questa storia che mi girava in testa ho detto "provo a buttarla giù e vediamo che succede". E ne è venuto fuori il mio primo vero romanzo».

È una storia scritta per qualcuno in particolare o più per te stesso?

«Mi piace descriverla così: è una auto-seduta di psicoanalisi. Avevo bisogno di scrivere questo romanzo, lo sentivo dentro di me da tanto tempo. È dedicato a una persona che in un momento difficile mi ha aiutato moltissimo, quindi in un certo verso si può dire che l'ho scritto per lei o più precisamente "con" lei. Quando ho iniziato non credevo neppure di pubblicarlo. Questo libro stava nel cassetto da due anni, quasi dimenticato. Poi ho letto per caso di un'agenzia letteraria di Ceprano che si chiama "Riscrivimi", che valuta manoscritti gratis, quindi ho mandato il mio. Una settimana dopo mi ha risposto il responsabile, Giuseppe Palladino, con una scheda dettagliata su cosa funzionava nel romanzo, cosa invece forse andava tagliato… È stato lui a trovare una casa editrice interessata a pubblicarlo. Voglio ringraziarlo per l'ottimo lavoro che ha fatto per me. Credo che se non fosse stato per lui, il mio libro sarebbe ancora in quel cassetto».

C'è una speranza per i giovani?

«Assolutamente, credo che una speranza ci sia. Il messaggio che vorrei trasmettesse il mio romanzo è proprio questo. Non bisogna buttarsi giù nemmeno nel momento in cui sembra non esserci via d'uscita. Io dico che la vita va vissuta "partita dopo partita", bisogna sapersi adattare. I giovani, oggi, se vogliono rimanere in Italia, devono essere forti, sapersi reinventare. Forse sembra un discorso banale, ma il problema di noi trentenni è proprio questo a mio avviso: non possiamo permetterci di pensare al futuro, perché non ne abbiamo gli strumenti. Oggi va così, domani vedremo».

Foto Claudio Papetti