Ho quasi trent'anni e sono nato e cresciuto ad Alatri, dove vivo tutt'oggi: amo il mio paese e la mia terra con l'orgoglio – e l'irrazionalità, forse – che solo gli innamorati hanno. Mi piace pensare che sia il classico comune di provincia, dove tutti conoscono tutti, dove ci si incontra per strada senza darsi appuntamento, dove riesci sempre o quasi a risalire ad un parente comune, anche solo un cugino alla lontana. Amo Alatri perché è casa mia, e casa è il luogo dove risiederà il tuo cuore, sempre, anche se ti trasferisci a mille chilometri di distanza.

Nella notte tra venerdì e sabato ad Alatri hanno ucciso un ragazzo di vent'anni. Dieci contro uno, si dice. Calci in testa, quindi il cranio fracassato. La corsa all'Umberto I, l'operazione, quindi l'ovvia conseguenza, la più tragica che si possa immaginare. Davanti ad un locale, in pieno centro storico. Davanti a tante persone, che ora i carabinieri stanno ascoltando. Impossibile che nessuno si sia accorto di niente. Ed è agghiacciante pensare che nessuno abbia tentato di fermare quelle persone, di difenderlo.

Un cocktail preso per sbaglio, qualche apprezzamento di troppo nei confronti della ragazza, un agguato premeditato: si parla di "motivi". Ma non esistono "motivi" tali da spiegare una barbarie del genere. Non esiste affronto, mancanza di rispetto o torto che possano in qualche maniera giustificare il male. Mai, in nessun caso.

La prima considerazione che mi è venuta in mente, quando ho appreso la notizia, è stata: "Impossibile. Ad Alatri non si viene uccisi. In nessun caso, figurarsi per un cocktail o per l'apprezzamento nei confronti della tua ragazza". Mi illudevo – anzi, mi illudo – che in questa cittadina dominata dalle mura ciclopiche dell'Acropoli si esca insieme, si rida, si scherzi, si ascolti musica, magari si beva qualche bicchiere di troppo, ma senza andare oltre. Perlomeno non oltre un paio di spintoni e una parolaccia. E invece i segnali, le avvisaglie di una tragedia, c'erano stati, eccome, negli ultimi mesi. Ma quando le vicende di cronaca nera ti entrano in casa, nel vero senso della parola, tutto cambia: non è Roma, non è Milano né Palermo. È casa tua, dove giocavi a pallone con gli amici di sempre e dove hai passato quasi tutta la tua vita.

Credo che l'altra notte sia stato tracciato un solco, che da oggi in poi ci sarà un "prima di Emanuele" ed un "dopo Emanuele". Starà a me, a noi, far sì che il dopo possa essere in qualche modo migliore. Senza dimenticare, perché le cicatrici restano addosso per sempre, e non c'è alcun modo per consolare una famiglia distrutta da un lutto del genere. "Dopo Emanuele" Alatri DEVE tornare ad essere la tranquilla, piacevole, pacifica e magari persino anonima cittadina ciociara che è sempre stata. Questa fama, del resto, non ce la meritiamo. È compito di tutti noi ricordare, sempre. Senza distinzioni tra alatrensi e stranieri, tra alatrensi e tecchienesi, ché poi alla fine siamo solo esseri umani, e tali dobbiamo tornare. Sarà retorico, ma evidentemente giova ricordarlo, se è accaduto ciò che sappiamo.

La politica si è accorta di noi, intanto. Non solo i media nazionali, ma anche alcuni importanti leader politici: ora vanno a caccia di un paio di voti e un paio di like in più, parlando alla rabbia cieca, al furore tutto sommato comprensibile di alcune persone. Come hanno sempre fatto. Parlano alla pancia, chiedono "giustizia esemplare". Lo sappiamo, che dovrà esserci "giustizia", nessuno deve ricordarcelo, caro Salvini. E nessuno deve farsela da solo: perché, da che mondo è mondo, violenza chiama violenza. A noi il dovere di rompere questa tradizione: nel nome di Dio, della Chiesa, di Alatri, di Emanuele, di chi vi pare; non importa il perché. Importa che ognuno di noi si interroghi, rifletta e – perché no? - si assuma le sue responsabilità; anche chi non c'era, l'altra sera, anche chi pensa di essere immune dalla vergogna. Dobbiamo vergognarci tutti, nessuno escluso: chinare il capo e PENSARE.

Leggo persone che hanno lasciato Alatri qualche anno fa, leggo alcuni post su Facebook e vorrei dire loro: "Non fateci la morale. Non fatecela, perché ve ne siete andati per convenienza, o in cerca di lavoro, o per studiare: non ve ne siete andati, come alcuni di voi pensano, perché siete migliori di noi. Non sentitevi immuni o innocenti: ci siamo dentro tutti". Perché quello che è successo ad Alatri è pressoché uguale ad altri fatti di cronaca accaduti in tutta Italia negli ultimi anni. Con l'unica differenza che, stavolta, è successo a casa nostra.

Ora più che mai è importante una cosa, e una sola: che regni il buonsenso, la pace, l'umanità che ci distingue dalle bestie. Il rispetto, che non è quello di stampo mafioso dettato dal timore di ritorsioni e vendette, bensì quello che nasce dalla convinzione che ogni vita è sacra. Sempre, in qualsiasi caso. Mi rendo conto che il mio pensiero andrà forse in controtendenza, perché il dolore e la rabbia in questo momento hanno il sopravvento, ma dar vita a una guerra civile non farebbe altro che gettare ancor di più Alatri nel buco nero che l'ha inghiottita da tre giorni a questa parte. Da oggi in poi, tutti noi, se avremo una discussione, una lite o qualsiasi tipo di "scontro" con un'altra persona, dovremo chiudere gli occhi e pensare ad Emanuele. Lo dobbiamo a questo ragazzo, morto per una stupidaggine; lo dobbiamo alla sua famiglia, che ora vive il dolore più grande che esista; lo dobbiamo a noi stessi e a tutto il mondo. Che sia Alatri, Napoli, Parigi o Berlino: ricordiamoci di essere umani.